Ma il rovescio della medaglia ha fatto sì che la precarietà nel
lavoro comportasse la precarizzazione dell’esistenza stessa di milioni di
giovani. Quella stabilità che aveva consentito alle precedenti generazioni di
costruire il proprio benessere e con esso la forza e la solidità del paese è
venuta definitivamente meno. Ma la crisi che stiamo vivendo ha mostrato
l’importanza vitale di quel sistema sociale ed economico. Pensioni, risparmi,
case di proprietà, solidi rapporti familiari e sociali hanno rappresentato e
rappresentano le uniche reali reti di sostegno per i cittadini italiani e per
lo Stato stesso nel mezzo della tempesta devastante che ci ha investiti. Ma
crediamo che le “generazioni precarie” saranno in grado di garantire alle
prossime e al paese altrettanto solide basi capaci di far superare i momenti
più difficili? Come potranno avere una pensione ragazzi che oggi sopravvivono
grazie a quella dei genitori o peggio ancora, dei nonni? Chi potrà risparmiare
e immettere così nuove risorse nel circuito del credito guadagnando meno di
mille euro al mese? Come potranno le nuove generazioni creare nuove reti di
sostegno familiare se avere un figlio è diventato un lusso che in troppi non
possono permettersi? Quale contributo potranno conferire generazioni tanto
impoverite alle necessità finanziarie del paese dalle quali dipendono i servizi
essenziali? Queste sono semplici domande
che mettono in luce il rapporto tra la precarizzazione e il futuro del paese.
Ecco perché non è più possibile andare avanti lungo questo insensato percorso.
Certamente le difficoltà economiche oggi rendono ancor più difficile
un’inversione di marcia in un momento in cui la disoccupazione gonfia le
proprie fila e un mercato del lavoro da incubo crea di continuo nuove povertà
facendo quasi dei precari una categoria “privilegiata” rispetto a un
“sottoprecariato” che vive alla giornata. Ma proprio per questo è ancor più
importante rilanciare il lavoro quale fattore fondante della vita di ogni
persona. La flessibilità può rappresentare un’opportunità per l’ingresso nel
mondo del lavoro e occasione per una efficiente selezione e formazione da parte
delle imprese ma deve essere ricondotta alla funzione di “mezzo”. In troppi e
per troppo tempo hanno sparato sentenze contro il posto fisso glorificando le
magie della “flessibilità immaginaria” assurta a “fine” ultimo del lavoro.
Personaggi politici, economisti e altri che non hanno mai cambiato lavoro nella
propria vita hanno tentato per anni di convincere i giovani che in fondo non
avere alcuna certezza sulla quale fondare la propria vita fosse una bella cosa.
Con le tasche piene di stipendi sicuri quanto le loro pensioni, questi
illusionisti, “condannati” per loro sfortuna a una vita “noiosa” fatta di
sicurezza economica e sociale, hanno mascherato il fallimento della
flessibilità, magari attribuendone parte della responsabilità alla pavidità di
molti giovani troppo “bamboccioni”. La flessibilità/precarietà degli ultimi due
decenni ha fallito miseramente e ha privato il paese di anticorpi preziosi contro
le crisi. Il sacrificio di milioni di giovani non ha portato alcun risultato se
non quello di costringere intere generazioni a mettere la propria esistenza in
stand-by. Queste generazioni chiedono di poter finalmente vivere ciò che per
chi li ha preceduti era semplice normalità; convivere o sposarsi, acquistare
una casa o permettersi un affitto, mettere al mondo dei figli. Proprio nel
mezzo della crisi è fondamentale ribadire che il lavoro fisso è una conquista e
per ogni lavoratore deve esistere il diritto naturale a tendere ad esso. Ciò è
importante perché oggi si imposti un nuovo modello di sviluppo fondato sulla
centralità del lavoro che servirà una volta che la tempesta sarà passata e
dovremo ricostruire sopra le macerie che si sarà lasciata alle spalle. Questo
non significa tornare agli anni Settanta ma ammettere che tra le variabili dei
cicli produttivi, quella della durata indeterminata dei contratti dei
dipendenti non rappresenta un freno alla competitività ma semmai un incentivo a
creare ricchezza e stimolare nuovi e più maturi consumi. Significa finirla col
falso garantismo che impone di reintegrare chi è stato giustamente licenziato (magari
perché sorpreso a rubare) e tutelare dal doveroso licenziamento assenteisti e
truffatori ma garantire invece i diritti del lavoro per tutti, come ad esempio
quello di ogni donna ad avere un figlio senza rischiare di perdere il posto,
senza l’odiosa distinzione tra lavoratori di serie A e di serie C degli ultimi
decenni. Significa intervenire su ciò che realmente rende l’Italia un’economia
poco competitiva e poco appetita dagli investitori. Rendere la giustizia più
rapida ed efficiente, eliminare il peso soffocante della burocrazia, della
corruzione e delle organizzazioni mafiose, rilanciare le produzioni ad alta
intensità di tecnologia attraverso un nuovo e poderoso impulso a ricerca e
formazione sono cose più difficili che inventare nuove tipologie di contratti
lavorativi ridicoli ma sarebbero di gran lunga più incisive e vincenti. In
conclusione significa impegnarsi a restituire ciò di cui le ultime generazioni
sono state private e che rappresenta il bene più prezioso per ogni paese: la
fiducia nel futuro. Solo se restituirà ai propri giovani la speranza,
cancellando dai loro cuori e dalle loro menti la paura immensa e innaturale
alla quale li ha condannati negli ultimi decenni, il nostro paese potrà
riprendere il proprio cammino verso un futuro migliore.
La garmugia. Finalmente primavera
3 mesi fa
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