Uno dei più celebri
inganni della storia recente del nostro paese è rappresentato dall’introduzione
della cosiddetta “flessibilità” nel mercato del lavoro. Presentata a più riprese
come la panacea di tutti i mali, essa ha rivelato il suo vero volto ben prima
dello scoppio della grande crisi che stiamo vivendo. Fin da subito è stato
chiaro che quel “modello flessibile”, trapiantato su di un organismo non pronto
per riceverlo, avrebbe finito per trasformarsi in qualcosa di ben diverso da
quanto promesso dai suoi più ferventi sostenitori. Ma la metamorfosi quasi
immediata del “sogno” della flessibilità nell’”incubo” della precarietà non è
soltanto il risultato di un’ingenua fiducia riposta in un esperimento fallito.
Infatti se è vero che, come una creatura evocata da maldestri stregoni, tale
modello è sfuggito al controllo della politica e si è sviluppato autonomamente
lungo un percorso opposto a quello per cui era stato introdotto, la malafede e
l’indifferenza di molti attori economici hanno consentito e sostenuto tale
deriva. La politica ha certamente colpe enormi; prima fra tutte quella di non
aver preparato il terreno creando un sistema di tutele ad hoc per le nuove
categorie di lavoratori che si andavano ad introdurre nella legislazione del
lavoro. A distanza di un quindicennio dalla comparsa in Italia di forme di
lavoro flessibili ancora non si è giunti a predisporre misure adeguate di
sicurezza sociale a difesa di tali lavoratori, vittime di una delle più
vergognose discriminazioni collettive nella storia della repubblica. Oltre a
ciò gli interventi legislativi non hanno operato un’azione coerente con la logica
alla base dell’introduzione della flessibilità. Infatti tale logica si basava
sulla convinzione che le nuove forme contrattuali avrebbero dovuto favorire
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e un accesso nel mondo lavorativo
più rapido per i giovani, consentendo alle imprese una maggiore libertà e
incisività durante il processo selettivo per il reclutamento del personale. Ma
l’inerzia della politica nel fissare regole precise in questa direzione ha
consentito che tali nuovi contratti finissero di fatto per regolare non solo il
momento, più o meno lungo, di reclutamento, formazione e inserimento del
lavoratore in azienda ma persino il rapporto stesso di lavoro a lungo termine.
In questo modo si è resa possibile la “bestialità” per la quale è conveniente
regolare rapporti di lavoro di lungo periodo attraverso una serie infinita di
contratti a tempo determinato. Ecco dunque che scopriamo il grande complice
della politica e corresponsabile: il mondo imprenditoriale. Con un uso
scellerato dei contratti atipici e a tempo determinato buona parte dei datori
di lavoro ha contribuito con la politica a distruggere il vecchio mondo del
lavoro senza costruirne uno nuovo. Invece di modernizzare e rendere più
efficiente il sistema lavorativo italiano, tali interventi hanno finito per
scardinalo sostituendo ad esso un mercato del lavoro selvaggio e irrazionale.
Tale occasione perduta non solo ha avuto conseguenze nefaste per operai e
impiegati ma ha assestato un colpo durissimo alla qualità delle performance delle
imprese stesse. Infatti molti pseudo imprenditori hanno vanificato l’aspetto
formativo alla base alcune tipologie contrattuali sfruttando per esempio
contratti di apprendistato e formazione per mascherare semplici rapporti di
dipendenza. In più tale sistema mortificante ha privato il paese e le proprie
imprese di un numero enorme di competenze ed eccellenze costrette a prendere la
via dell’estero. Queste conseguenze dimostrano nuovamente la malafede di un
sistema sorto per affrontare le sfide della globalizzazione e di quel mantra
che ha risuonato per buona parte degli anni Novanta e Duemila: “fare
concorrenza alla Cina”. Ma rinunciando alla qualità di una forza lavoro
preparata e specializzata, motivata dall’essere parte integrante di un progetto
industriale coerente e a lungo termine, quale resistenza avrebbe mai potuto
opporre il nostro paese? Ecco che la vera faccia della “flessibilità
immaginaria” italiana ha preso la propria vera forma. Sotto il ricatto di una
delocalizzazione selvaggia, essa ha coperto un’operazione di smantellamento dei
diritti dei nuovi lavoratori che non ha comportato peraltro alcuna
compensazione dal punto di vista occupazionale e salariale. In questo modo
quelle stesse imprese che avevano già delocalizzato nei paesi emergenti gran
parte dei cicli produttivi a manodopera scarsamente specializzata hanno potuto
ottenere in Italia un abbassamento dei costi senza che ciò si traducesse in
maggior qualità della produzione e tantomeno dell’occupazione. Le nuove
generazioni di lavoratori sono divenute così, in un batter di ciglia, “precarie”,
senza che coloro i quali avrebbero dovuto battersi per invertire la rotta, forse
perché troppo occupati a garantire gli interessi di statali e pensionati,
serbatoi enormi di consenso politico e tessere sindacali, si interessassero
minimamente alla piega drammatica che stava prendendo la vita di tante persone.
Ma il rovescio della medaglia ha fatto sì che la precarietà nel
lavoro comportasse la precarizzazione dell’esistenza stessa di milioni di
giovani. Quella stabilità che aveva consentito alle precedenti generazioni di
costruire il proprio benessere e con esso la forza e la solidità del paese è
venuta definitivamente meno. Ma la crisi che stiamo vivendo ha mostrato
l’importanza vitale di quel sistema sociale ed economico. Pensioni, risparmi,
case di proprietà, solidi rapporti familiari e sociali hanno rappresentato e
rappresentano le uniche reali reti di sostegno per i cittadini italiani e per
lo Stato stesso nel mezzo della tempesta devastante che ci ha investiti. Ma
crediamo che le “generazioni precarie” saranno in grado di garantire alle
prossime e al paese altrettanto solide basi capaci di far superare i momenti
più difficili? Come potranno avere una pensione ragazzi che oggi sopravvivono
grazie a quella dei genitori o peggio ancora, dei nonni? Chi potrà risparmiare
e immettere così nuove risorse nel circuito del credito guadagnando meno di
mille euro al mese? Come potranno le nuove generazioni creare nuove reti di
sostegno familiare se avere un figlio è diventato un lusso che in troppi non
possono permettersi? Quale contributo potranno conferire generazioni tanto
impoverite alle necessità finanziarie del paese dalle quali dipendono i servizi
essenziali? Queste sono semplici domande
che mettono in luce il rapporto tra la precarizzazione e il futuro del paese.
Ecco perché non è più possibile andare avanti lungo questo insensato percorso.
Certamente le difficoltà economiche oggi rendono ancor più difficile
un’inversione di marcia in un momento in cui la disoccupazione gonfia le
proprie fila e un mercato del lavoro da incubo crea di continuo nuove povertà
facendo quasi dei precari una categoria “privilegiata” rispetto a un
“sottoprecariato” che vive alla giornata. Ma proprio per questo è ancor più
importante rilanciare il lavoro quale fattore fondante della vita di ogni
persona. La flessibilità può rappresentare un’opportunità per l’ingresso nel
mondo del lavoro e occasione per una efficiente selezione e formazione da parte
delle imprese ma deve essere ricondotta alla funzione di “mezzo”. In troppi e
per troppo tempo hanno sparato sentenze contro il posto fisso glorificando le
magie della “flessibilità immaginaria” assurta a “fine” ultimo del lavoro.
Personaggi politici, economisti e altri che non hanno mai cambiato lavoro nella
propria vita hanno tentato per anni di convincere i giovani che in fondo non
avere alcuna certezza sulla quale fondare la propria vita fosse una bella cosa.
Con le tasche piene di stipendi sicuri quanto le loro pensioni, questi
illusionisti, “condannati” per loro sfortuna a una vita “noiosa” fatta di
sicurezza economica e sociale, hanno mascherato il fallimento della
flessibilità, magari attribuendone parte della responsabilità alla pavidità di
molti giovani troppo “bamboccioni”. La flessibilità/precarietà degli ultimi due
decenni ha fallito miseramente e ha privato il paese di anticorpi preziosi contro
le crisi. Il sacrificio di milioni di giovani non ha portato alcun risultato se
non quello di costringere intere generazioni a mettere la propria esistenza in
stand-by. Queste generazioni chiedono di poter finalmente vivere ciò che per
chi li ha preceduti era semplice normalità; convivere o sposarsi, acquistare
una casa o permettersi un affitto, mettere al mondo dei figli. Proprio nel
mezzo della crisi è fondamentale ribadire che il lavoro fisso è una conquista e
per ogni lavoratore deve esistere il diritto naturale a tendere ad esso. Ciò è
importante perché oggi si imposti un nuovo modello di sviluppo fondato sulla
centralità del lavoro che servirà una volta che la tempesta sarà passata e
dovremo ricostruire sopra le macerie che si sarà lasciata alle spalle. Questo
non significa tornare agli anni Settanta ma ammettere che tra le variabili dei
cicli produttivi, quella della durata indeterminata dei contratti dei
dipendenti non rappresenta un freno alla competitività ma semmai un incentivo a
creare ricchezza e stimolare nuovi e più maturi consumi. Significa finirla col
falso garantismo che impone di reintegrare chi è stato giustamente licenziato (magari
perché sorpreso a rubare) e tutelare dal doveroso licenziamento assenteisti e
truffatori ma garantire invece i diritti del lavoro per tutti, come ad esempio
quello di ogni donna ad avere un figlio senza rischiare di perdere il posto,
senza l’odiosa distinzione tra lavoratori di serie A e di serie C degli ultimi
decenni. Significa intervenire su ciò che realmente rende l’Italia un’economia
poco competitiva e poco appetita dagli investitori. Rendere la giustizia più
rapida ed efficiente, eliminare il peso soffocante della burocrazia, della
corruzione e delle organizzazioni mafiose, rilanciare le produzioni ad alta
intensità di tecnologia attraverso un nuovo e poderoso impulso a ricerca e
formazione sono cose più difficili che inventare nuove tipologie di contratti
lavorativi ridicoli ma sarebbero di gran lunga più incisive e vincenti. In
conclusione significa impegnarsi a restituire ciò di cui le ultime generazioni
sono state private e che rappresenta il bene più prezioso per ogni paese: la
fiducia nel futuro. Solo se restituirà ai propri giovani la speranza,
cancellando dai loro cuori e dalle loro menti la paura immensa e innaturale
alla quale li ha condannati negli ultimi decenni, il nostro paese potrà
riprendere il proprio cammino verso un futuro migliore.