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domenica 12 agosto 2012

Come un paese rinuncia al proprio futuro. La “flessibilità immaginaria” italiana

Uno dei più celebri inganni della storia recente del nostro paese è rappresentato dall’introduzione della cosiddetta “flessibilità” nel mercato del lavoro. Presentata a più riprese come la panacea di tutti i mali, essa ha rivelato il suo vero volto ben prima dello scoppio della grande crisi che stiamo vivendo. Fin da subito è stato chiaro che quel “modello flessibile”, trapiantato su di un organismo non pronto per riceverlo, avrebbe finito per trasformarsi in qualcosa di ben diverso da quanto promesso dai suoi più ferventi sostenitori. Ma la metamorfosi quasi immediata del “sogno” della flessibilità nell’”incubo” della precarietà non è soltanto il risultato di un’ingenua fiducia riposta in un esperimento fallito. Infatti se è vero che, come una creatura evocata da maldestri stregoni, tale modello è sfuggito al controllo della politica e si è sviluppato autonomamente lungo un percorso opposto a quello per cui era stato introdotto, la malafede e l’indifferenza di molti attori economici hanno consentito e sostenuto tale deriva. La politica ha certamente colpe enormi; prima fra tutte quella di non aver preparato il terreno creando un sistema di tutele ad hoc per le nuove categorie di lavoratori che si andavano ad introdurre nella legislazione del lavoro. A distanza di un quindicennio dalla comparsa in Italia di forme di lavoro flessibili ancora non si è giunti a predisporre misure adeguate di sicurezza sociale a difesa di tali lavoratori, vittime di una delle più vergognose discriminazioni collettive nella storia della repubblica. Oltre a ciò gli interventi legislativi non hanno operato un’azione coerente con la logica alla base dell’introduzione della flessibilità. Infatti tale logica si basava sulla convinzione che le nuove forme contrattuali avrebbero dovuto favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e un accesso nel mondo lavorativo più rapido per i giovani, consentendo alle imprese una maggiore libertà e incisività durante il processo selettivo per il reclutamento del personale. Ma l’inerzia della politica nel fissare regole precise in questa direzione ha consentito che tali nuovi contratti finissero di fatto per regolare non solo il momento, più o meno lungo, di reclutamento, formazione e inserimento del lavoratore in azienda ma persino il rapporto stesso di lavoro a lungo termine. In questo modo si è resa possibile la “bestialità” per la quale è conveniente regolare rapporti di lavoro di lungo periodo attraverso una serie infinita di contratti a tempo determinato. Ecco dunque che scopriamo il grande complice della politica e corresponsabile: il mondo imprenditoriale. Con un uso scellerato dei contratti atipici e a tempo determinato buona parte dei datori di lavoro ha contribuito con la politica a distruggere il vecchio mondo del lavoro senza costruirne uno nuovo. Invece di modernizzare e rendere più efficiente il sistema lavorativo italiano, tali interventi hanno finito per scardinalo sostituendo ad esso un mercato del lavoro selvaggio e irrazionale. Tale occasione perduta non solo ha avuto conseguenze nefaste per operai e impiegati ma ha assestato un colpo durissimo alla qualità delle performance delle imprese stesse. Infatti molti pseudo imprenditori hanno vanificato l’aspetto formativo alla base alcune tipologie contrattuali sfruttando per esempio contratti di apprendistato e formazione per mascherare semplici rapporti di dipendenza. In più tale sistema mortificante ha privato il paese e le proprie imprese di un numero enorme di competenze ed eccellenze costrette a prendere la via dell’estero. Queste conseguenze dimostrano nuovamente la malafede di un sistema sorto per affrontare le sfide della globalizzazione e di quel mantra che ha risuonato per buona parte degli anni Novanta e Duemila: “fare concorrenza alla Cina”. Ma rinunciando alla qualità di una forza lavoro preparata e specializzata, motivata dall’essere parte integrante di un progetto industriale coerente e a lungo termine, quale resistenza avrebbe mai potuto opporre il nostro paese? Ecco che la vera faccia della “flessibilità immaginaria” italiana ha preso la propria vera forma. Sotto il ricatto di una delocalizzazione selvaggia, essa ha coperto un’operazione di smantellamento dei diritti dei nuovi lavoratori che non ha comportato peraltro alcuna compensazione dal punto di vista occupazionale e salariale. In questo modo quelle stesse imprese che avevano già delocalizzato nei paesi emergenti gran parte dei cicli produttivi a manodopera scarsamente specializzata hanno potuto ottenere in Italia un abbassamento dei costi senza che ciò si traducesse in maggior qualità della produzione e tantomeno dell’occupazione. Le nuove generazioni di lavoratori sono divenute così, in un batter di ciglia, “precarie”, senza che coloro i quali avrebbero dovuto battersi per invertire la rotta, forse perché troppo occupati a garantire gli interessi di statali e pensionati, serbatoi enormi di consenso politico e tessere sindacali, si interessassero minimamente alla piega drammatica che stava prendendo la vita di tante persone.

Ma il rovescio della medaglia ha fatto sì che la precarietà nel lavoro comportasse la precarizzazione dell’esistenza stessa di milioni di giovani. Quella stabilità che aveva consentito alle precedenti generazioni di costruire il proprio benessere e con esso la forza e la solidità del paese è venuta definitivamente meno. Ma la crisi che stiamo vivendo ha mostrato l’importanza vitale di quel sistema sociale ed economico. Pensioni, risparmi, case di proprietà, solidi rapporti familiari e sociali hanno rappresentato e rappresentano le uniche reali reti di sostegno per i cittadini italiani e per lo Stato stesso nel mezzo della tempesta devastante che ci ha investiti. Ma crediamo che le “generazioni precarie” saranno in grado di garantire alle prossime e al paese altrettanto solide basi capaci di far superare i momenti più difficili? Come potranno avere una pensione ragazzi che oggi sopravvivono grazie a quella dei genitori o peggio ancora, dei nonni? Chi potrà risparmiare e immettere così nuove risorse nel circuito del credito guadagnando meno di mille euro al mese? Come potranno le nuove generazioni creare nuove reti di sostegno familiare se avere un figlio è diventato un lusso che in troppi non possono permettersi? Quale contributo potranno conferire generazioni tanto impoverite alle necessità finanziarie del paese dalle quali dipendono i servizi essenziali?  Queste sono semplici domande che mettono in luce il rapporto tra la precarizzazione e il futuro del paese. Ecco perché non è più possibile andare avanti lungo questo insensato percorso. Certamente le difficoltà economiche oggi rendono ancor più difficile un’inversione di marcia in un momento in cui la disoccupazione gonfia le proprie fila e un mercato del lavoro da incubo crea di continuo nuove povertà facendo quasi dei precari una categoria “privilegiata” rispetto a un “sottoprecariato” che vive alla giornata. Ma proprio per questo è ancor più importante rilanciare il lavoro quale fattore fondante della vita di ogni persona. La flessibilità può rappresentare un’opportunità per l’ingresso nel mondo del lavoro e occasione per una efficiente selezione e formazione da parte delle imprese ma deve essere ricondotta alla funzione di “mezzo”. In troppi e per troppo tempo hanno sparato sentenze contro il posto fisso glorificando le magie della “flessibilità immaginaria” assurta a “fine” ultimo del lavoro. Personaggi politici, economisti e altri che non hanno mai cambiato lavoro nella propria vita hanno tentato per anni di convincere i giovani che in fondo non avere alcuna certezza sulla quale fondare la propria vita fosse una bella cosa. Con le tasche piene di stipendi sicuri quanto le loro pensioni, questi illusionisti, “condannati” per loro sfortuna a una vita “noiosa” fatta di sicurezza economica e sociale, hanno mascherato il fallimento della flessibilità, magari attribuendone parte della responsabilità alla pavidità di molti giovani troppo “bamboccioni”. La flessibilità/precarietà degli ultimi due decenni ha fallito miseramente e ha privato il paese di anticorpi preziosi contro le crisi. Il sacrificio di milioni di giovani non ha portato alcun risultato se non quello di costringere intere generazioni a mettere la propria esistenza in stand-by. Queste generazioni chiedono di poter finalmente vivere ciò che per chi li ha preceduti era semplice normalità; convivere o sposarsi, acquistare una casa o permettersi un affitto, mettere al mondo dei figli. Proprio nel mezzo della crisi è fondamentale ribadire che il lavoro fisso è una conquista e per ogni lavoratore deve esistere il diritto naturale a tendere ad esso. Ciò è importante perché oggi si imposti un nuovo modello di sviluppo fondato sulla centralità del lavoro che servirà una volta che la tempesta sarà passata e dovremo ricostruire sopra le macerie che si sarà lasciata alle spalle. Questo non significa tornare agli anni Settanta ma ammettere che tra le variabili dei cicli produttivi, quella della durata indeterminata dei contratti dei dipendenti non rappresenta un freno alla competitività ma semmai un incentivo a creare ricchezza e stimolare nuovi e più maturi consumi. Significa finirla col falso garantismo che impone di reintegrare chi è stato giustamente licenziato (magari perché sorpreso a rubare) e tutelare dal doveroso licenziamento assenteisti e truffatori ma garantire invece i diritti del lavoro per tutti, come ad esempio quello di ogni donna ad avere un figlio senza rischiare di perdere il posto, senza l’odiosa distinzione tra lavoratori di serie A e di serie C degli ultimi decenni. Significa intervenire su ciò che realmente rende l’Italia un’economia poco competitiva e poco appetita dagli investitori. Rendere la giustizia più rapida ed efficiente, eliminare il peso soffocante della burocrazia, della corruzione e delle organizzazioni mafiose, rilanciare le produzioni ad alta intensità di tecnologia attraverso un nuovo e poderoso impulso a ricerca e formazione sono cose più difficili che inventare nuove tipologie di contratti lavorativi ridicoli ma sarebbero di gran lunga più incisive e vincenti. In conclusione significa impegnarsi a restituire ciò di cui le ultime generazioni sono state private e che rappresenta il bene più prezioso per ogni paese: la fiducia nel futuro. Solo se restituirà ai propri giovani la speranza, cancellando dai loro cuori e dalle loro menti la paura immensa e innaturale alla quale li ha condannati negli ultimi decenni, il nostro paese potrà riprendere il proprio cammino verso un futuro migliore.      

Alessio Manfroni - laureato in Politiche e Relazioni Internazionali, precario e blogger    




 
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