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giovedì 19 luglio 2012

Ma quando ti decidi a fare un figliolo?

Ma quante volte vi siete sentiti porgere la fastidiosa e sempre inopportuna domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”.

L’ultima volta mi è capitata qualche giorno fa sull’autobus mentre tornavo dal lavoro: una gentile anziana signora, con cui non ho una confidenza tale da esporle i progetti per il mio precario futuro, seduta sul seggiolino dietro il mio, mossa non so da qualche spinta di malsana e sgradita curiosità, assale il timpano del mio orecchio con la fastidiosa domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”
Ed ecco che sento tutti gli occhi dei passeggeri, fino ad allora mollemente abbandonati al traballante incedere dell’autobus, rivolti verso di me con sguardo interrogativo. Io balbetto qualcosa sulla crisi, sul mio lavoro, mi giustifico ben sapendo che non sono assolutamente tenuta a dare alcuna spiegazione e vado nel panico. E così la gentile anziana signora mi interrompe: “Voi giovani non siete mai contenti, vi manca sempre qualcosa e avete troppe pretese”. Fortuna, o sfortuna, che sono una persona educata, non mi piace essere offensiva e sono pacifista, eppure in quel momento avevo una voglia incontenibile di sbattere il libro che avevo in mano sul naso impiccione della gentile anziana signora, di accompagnare il gesto con uno sproloquio di aggettivi sprezzanti e di mandare tutti gli altri passeggeri a quel paese. E fortuna che ero avvolta dalle sorridenti e magiche pagine di Dona Flor e i suoi mariti e che ho preferito ignorare tutti e dedicarmi alle vicende esoteriche di Flor e Vadinho.

Ecco quello che avrei voluto dire all’anziana gentile signora: è vero, oggi noi giovani non siamo mai contenti perché non possiamo più esserlo di uno Stato che chiede sempre maggiori sacrifici e offre sempre meno. Ci manca sempre qualcosa perché ci manca il lavoro, i mezzi di sostentamento per appropriarsi della propria indipendenza e del proprio futuro  e, ormai, ci vengono letteralmente negati (non ci possiamo certo dimenticare dell’infelice frase dell’attuale Ministro del Lavoro Elsa Fornero “Il lavoro non è un diritto”) anche i diritti fondamentali della nostra Costituzione. E se volere un lavoro fisso e un contratto che tuteli la maternità, voler poter scegliere di trascorrere con i propri figli almeno i loro primi mesi di vita e scegliere per loro quella che si ritiene sia l’educazione più opportuna è chiedere troppo, allora, è vero, i giovani hanno tantissime pretese e, almeno per quanto mi riguarda, non sono intenzionata a soprassedere nemmeno una.

La sociologa Chiara Saraceno, in un’intervista rilasciata a l’Unità, analizzando il rapporto Istat 2011 sulla povertà in Italia afferma: “La famiglia, grande ammortizzatore sociale nel nostro Paese, non ce la fa più a reggere il peso, i redditi modesti diventano sempre più vulnerabili e a vederla in prospettiva la situazione non sta affatto migliorando”. E continua dicendo che con il lavoro che va sempre diminuendo, per i giovani, è sempre più difficile riuscire ad essere indipendenti e a lasciare la casa dei genitori, mentre, con i servizi che vanno sempre più riducendosi, le donne sono sempre più costrette a rimanere a casa per dedicarsi al lavoro di cura. Alla domanda: “Una situazione sociale che si fa insostenibile: come arginarla?”, Saraceno risponde di essere molto perplessa quando tutta la spesa sociale viene considerata improduttiva e crede che anche l’istruzione e i servizi, intesi come infrastrutture sociali, dovrebbero essere considerati nel capitolo investimenti.

Vorrei che i nostri genitori e i nostri nonni non dicessero che i giovani “non fanno più figli”, parlando con l’aria di chi ha avuto il coraggio di fare un passo importante e responsabile a chi, impavido e egoista, preferisce pensare solo al proprio benessere. Oggi i giovani, anche quelli che magari un figlio lo vorrebbero, sono stati costretti a scegliere, responsabilmente, di non aver figli perché, prima, devono riconquistare quei diritti e garantirsi quei servizi senza cui è impensabile pensare di costruirsi una vita e una famiglia.



Sara C.


domenica 8 luglio 2012

La sindrome dell'ambizione


Il verbo ambire ha come originario significato: girovagare in cerca di uffici e voti al fine di garantirsi un’ascesa sociale od economica significativa. Per molti secoli, l’ambizione, è stato un costume disdicevole e l’ambizioso – tutto proteso nel tentativo di modificare la propria posizione entro una scala gerarchica che si credeva determinata dagli universali – un individuo biasimevole.  Il riscatto dell’ambizione, da un punto di vista assiologico, avviene in Francia nel periodo postrivoluzionario: un giovane nobilotto di provincia, corso, assurge in pochi anni al rango di imperatore. E’ il 1804.

Tutto il XIX Secolo francese è caratterizzato dalle figure di giovani provinciali, ambiziosi ed affascinanti, ispirati dalle grandi imprese di Napoleone Bonaparte e desiderosi di emularne le gesta. Per la maggior parte, la loro vicenda, il loro romanzo di formazione, sarà sanzionato con la sconfitta più a causa di una società ingiusta, incapace di elevare il merito oltre il lignaggio, che per incapacità. Eppure, è proprio attorno al tentativo ambizioso di cambiare la propria originaria condizione, attraverso superiori qualità, che si organizza un racconto in grado di attrarre generazioni diverse di lettori e indurre un’immedesimazione proprio con l’ambizioso, sia esso Julien Sorel o Eugène de Rastignac.

Ai giorni di oggi una divertentissima rappresentazione di una gioventù dalle qualità intellettuali e morali invidiabili è offerta dalla sit-com The Big Bang Theory che mette in scena un quartetto di ricercatori universitari in California, non molto ricchi, bruttini, desiderosi di una vita sentimentale appagante. L’unico, tra i protagonisti, che sottomette il valore della socializzazione a quello del successo professionale è l’ambizioso Sheldon Cooper che sogna di raggiungere il premio Nobel e di svelare i misteri dell’universo con lo studio della fisica. Ma nessuno si potrebbe identificare con lui: misantropo, cinico, ossessivo a tal punto da aver fatto ipotizzare agli spettatori di essere affetto dalla sindrome di Asperger.

Sono passati centocinquant’anni e l’ambizione è di nuovo qualcosa da cui prendere le distanze: un’istanza patologica, alienante. Come insegna Mark Zuckerberg il successo non può più essere pianificato, non esiste una ricetta che vi conduca; è piuttosto un accidente, proprio come accadeva a quelle figure letterarie, nate prima dell’Ottocento, che riscattavano la propria condizione attraverso l'agnizione o il ritrovamento prodigioso di un tesoro.

Francesco C.


Big Bang Precario!


 
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