Il verbo ambire ha come originario significato: girovagare
in cerca di uffici e voti al fine di garantirsi un’ascesa sociale od economica
significativa. Per molti secoli, l’ambizione, è stato un costume disdicevole e
l’ambizioso – tutto proteso nel tentativo di modificare la propria posizione
entro una scala gerarchica che si credeva determinata dagli universali – un
individuo biasimevole. Il riscatto
dell’ambizione, da un punto di vista assiologico, avviene in Francia nel
periodo postrivoluzionario: un giovane nobilotto di provincia, corso, assurge
in pochi anni al rango di imperatore. E’ il 1804.
Tutto il XIX Secolo francese è caratterizzato dalle figure
di giovani provinciali, ambiziosi ed affascinanti, ispirati dalle grandi imprese
di Napoleone Bonaparte e desiderosi di emularne le gesta. Per la maggior parte,
la loro vicenda, il loro romanzo di formazione, sarà sanzionato con la
sconfitta più a causa di una società ingiusta, incapace di elevare il merito
oltre il lignaggio, che per incapacità. Eppure, è proprio attorno al tentativo
ambizioso di cambiare la propria originaria condizione, attraverso superiori
qualità, che si organizza un racconto in grado di attrarre generazioni diverse
di lettori e indurre un’immedesimazione proprio con l’ambizioso, sia esso
Julien Sorel o Eugène de Rastignac.
Ai giorni di oggi una divertentissima rappresentazione di
una gioventù dalle qualità intellettuali e morali invidiabili è offerta dalla
sit-com The Big Bang Theory che mette in scena un quartetto di ricercatori universitari
in California, non molto ricchi, bruttini, desiderosi di una vita sentimentale
appagante. L’unico, tra i protagonisti, che sottomette il valore della
socializzazione a quello del successo professionale è l’ambizioso Sheldon
Cooper che sogna di raggiungere il premio Nobel e di svelare i misteri
dell’universo con lo studio della fisica. Ma nessuno si potrebbe identificare
con lui: misantropo, cinico, ossessivo a tal punto da aver fatto ipotizzare
agli spettatori di essere affetto dalla sindrome di Asperger.
Sono passati centocinquant’anni e l’ambizione è di nuovo
qualcosa da cui prendere le distanze: un’istanza patologica, alienante. Come
insegna Mark Zuckerberg il successo non può più essere pianificato, non esiste
una ricetta che vi conduca; è piuttosto un accidente, proprio come accadeva a
quelle figure letterarie, nate prima dell’Ottocento, che riscattavano la propria
condizione attraverso l'agnizione o il ritrovamento prodigioso di un tesoro.
Francesco C.
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