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Standard & Poor’s, Moody, debito sovrano, titoli di stato, Troika, spending review. Come se la situazione di incertezza e precarietà in cui
stiamo galleggiando non fosse sufficiente a rendere insicuri i nostri posti di
lavoro e, di conseguenza, anche le nostre vite, siamo circondati da pedanti e
altisonanti termini economici, oscuri acronimi insolvibili e nomi poco
rassicuranti di severe agenzie di rating
ammonitrici che - sebbene siano diventati il pane quotidiano di tg e quotidiani
- ci aiutano ben poco a fare chiarezza e contribuiscono a rendere il periodo
contemporaneo ancor più nebuloso di quello che già non è.
E proprio ora che ero riuscita a capire perché non va bene se sale lo spread e a comprendere l’importanza che
un giudizio espresso da Standard & Poor’s può avere sull’andamento dei
mercati, il mio “vocabolario della crisi” si arricchisce di una nuova voce: mom-cession. Il nuovo termine, che
tradotto in italiano significa “recessione delle mamme”, nasce da uno studio
presentato al 107esimo congresso di sociologia del Colorado in cui i due
sociologi, Brian Serafini e Michelle Maroto, hanno evidenziato come una mamma
abbia il 31% di possibilità in meno, dopo la perdita di un posto di lavoro, di
trovare una nuova occupazione e come, a parità di condizioni, il nuovo
stipendio di un papà superi mediamente di settemila euro l’anno quello di una
mamma.
Mamme che si concentrano troppo sulla famiglia? Mamme che, in fondo,
tengono meno alla carriera e a rimettersi in gioco piuttosto che dedicarsi alla
cura del focolare? Uno studio del Families and Work Institute indica il
contrario: con o senza figli, l’impegno nel lavoro e l’ambizione rimangono gli
stessi. A questo punto, la domanda, seppur ovvia, nasce spontanea: non sarà che
la recessione delle mamme è il risultato di una non certo nuova discriminazione
da parte dei datori di lavoro? Proprio qualche giorno fa un’amica mi ha
raccontato che, dopo aver sostenuto un brillante colloquio di lavoro, si è
sentita dire di no perché madre di una bimba di tre anni e, come ci si può
immaginare, chi ha un figlio è vincolata a degli orari e a degli obblighi
familiari che non le permettono di essere totalmente disponibile. Ma che fine a
fatto il cosiddetto concetto di “working
balance”, il bilanciamento della vita professionale con le esigenze di
quella privata?
Su vitadidonna.it leggo che, almeno secondo la ricercatrice dell’Università
di Akron, Adrien French, le mamme che sono tornate al lavoro a tempo pieno, dopo
aver avuto un bambino, hanno una forma fisica migliore, sono meno a rischio di
cadere in depressione e manifestano una maggiore energia. Secondo la French “il lavoro migliora
la salute fisica e mentale delle donne perché migliora l’autostima e permette
di raggiungere degli obiettivi, di mantenere un controllo sulla propria vita e
di sentirsi autonome”. Ovviamente, in termini di salute psico-fisica, le mamme
occupate sono quelle che stanno meglio. Mentre il rischio di perdere il lavoro
o essere costantemente alla ricerca di una nuova occupazione “ha effetti
negativi sulla salute soprattutto mentale, ma anche fisica”. Non metto in
dubbio la migliore salute mentale di chi ha un lavoro e non deve pensare come
arrivare alla fine del mese, ma sul piano fisico non saprei: mai dubitare dell’allenamento
di una rampante precaria che saltella dalla mattina alla sera da un colloquio
ad un altro con una barretta energetica e due succhi di frutta nella borsa! Se
aggiungiamo poi che non esistono ammortizzatori sociali che proteggono le mamme
precarie rispetto alla discontinuità che caratterizza il loro percorso
professionale, sfido chiunque a raggiungere livelli di resistenza fisica,
agilità e concentrazione mentale di chi, lavoratrice atipica e madre, deve
destreggiarsi fra contratti di lavoro senza orario, rate di asili nido da
pagare e uno stipendio intermittente.
Non voglio di certo svilire la rispettabilità e l’attendibilità di uno
studio sulla salute della donna ma mi chiedo se non sarebbe molto più
importante, anche per il miglioramento della condizione psico-fisica femminile,
dedicarsi alla realizzazione e alla messa in pratica di leggi e buone pratiche
che supportino e tutelino la maternità e il lavoro femminile, senza che
scegliere di avere un figlio rappresenti un ulteriore handicap alla già alta
difficoltà di trovare e mantenere un lavoro.
Nell’attesa che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, con
delega alle Pari Opportunità, Elsa Fornero - che tanto tiene alla parità dei
licenziamenti nel pubblico e nel privato - inizi a stabilire i presupposti per
l’attuazione di misure concrete che garantiscano non solo equità, a vari
livelli, nel mondo del lavoro, ma anche nella scelta di poter avere un figlio,
vi propongo di dare un’occhiata al “Programma-obiettivo per l’incremento e laqualificazione della occupazione femminile, per la creazione, lo sviluppo e ilconsolidamento di imprese femminili, per la creazione di progetti integrati direte” per l’anno 2012.
Sara C.