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lunedì 15 luglio 2013

La riconciliazione di un precario: una proroga e una frittata

Questa mattina, in ufficio, mi è stata recapitata dal custode una raccomandata a mano personale: il mio contratto, che sarebbe dovuto scadere fra una decina di giorni, è stato prorogato fino al 31 dicembre. Niente di eccezionale, una proroga di poco più di cinque mesi, che però ha contribuito notevolmente a calmare quello strisciante senso di inquietudine che, inevitabilmente, ti coglie quando incominci a riflettere sul fatto che il tuo contratto terminerà prima degli yogurt senza conservanti che hai nel frigo!
“In relazione al rapporto di lavoro istaurato con la Sig.ra Vispa Teresa, assunta a tempo determinato a decorrere dal 21/01/2013 fino al 21/07/2013, informo che, a seguito del permanere delle esigenze che ne hanno reso necessario il reclutamento, tale rapporto di lavoro è prorogato fino al 31/12/2013”.
Tutto qui: ma queste poche parole, frutto probabilmente di un meccanico e svagato copia incolla, nella mia testa suonano più rilassanti ed emozionanti del notturno in do diesis minore di Chopin! No, non abbiate paura, non sto manifestando i primi fastidiosi sintomi della sindrome di Pollyanna, è solo che stasera è una bellissima serata di luglio, ho in frigo una fresca bottiglia di vino bianco che intendo gustare in tranquillità ed ho bisogno di riconciliarmi un po’ con me stessa. La questione cruciale della scadenza del contratto non è stata risolta, è stato piuttosto “prorogata”, ma stasera ho deciso di prendere una giornata libera e di prorogare anche i problemi e le ansie! Dove eravamo rimasti? Una bellissima giornata di luglio, una bottiglia di vino bianco … e con il vino? Una frittatina veloce e profumata. Devo rassicurarvi ancora una volta: no ho intenzione di accattivarmi la simpatia dei miei affezionati e numerosi (?) lettori cavalcando l’onda di successo dei blog di ricette … per cui, fra l’altro, non avrei neppure le competenza! Lo ripeto questo non è un post culinario ma un esercizio di riconciliazione con me stessa! La ricetta è di una semplicità disarmante, praticamente intuitiva, e gli ingredienti sono il minimo indispensabile: quattro uova, parmigiano, sale, un filo di olio di oliva e qualche aroma del mio “orto” (n.d.r. trattasi di un’aiuola a semicerchio di, più o meno, un metro di diametro!). Non sono capace di cuocerla nella padella e così risolvo alla mia inettitudine ai fornelli cucinandola al forno: come ho già detto, stasera niente complicazioni e, se si può, niente ustioni con l’olio bollente! Accendo il forno a 200°. Prendo un zuppiera di vetro e, una dopo l’altra, spacco le quattro uova (ricetta per due!)… mi piace farlo lentamente, rompendo il guscio con un sordo schiocco lungo il bordo della zuppiera e facendolo scivolare dentro con un tuffo calmo e solenne. Mi piace la sensazione fresca e appiccicosa dell’albume sulle dita e il giallo perfetto e luminoso dei tuorli che rimangono interi. Poi, tutto rigorosamente ad occhio e secondo il gusto personale, verso il sale, il parmigiano grattugiato e mescolo tutto insieme, dall’alto verso il basso, senza esagerare … quanto basta per far amalgamare le chiare ai rossi. Prendo una teglia antiaderente di forma circolare e, lentamente, ci faccio scivolare tutto il composto: piano piano, a rallentatore, per godere del contrasto tra la cremosità gialla delle uova che, morbidosamente, si allarga sul fondo nero della teglia. 

Il più è fatto: non resta che mettere la teglia nel forno, ormai caldo, e attendere poco più di un quarto d’ora! Mentre la frittata cuoce, il forno emana un profumino ghiotto e accogliente che mi dà buonumore e serenità . Divago pensando ad una bellissima scena di uno dei mie film preferiti, Una giornata particolare di Ettore Scola , dove Marcello Mastroianni e Sofia Loren, vivono un tragico e tenero momento di empatia fisica ed emotiva che ha inizio proprio con la condivisione di una frittata preparata da Mastroianni: 





 Ed ecco che finalmente la mia frittata è pronta, il sole è tramontato e la tavola apparecchiata per due: una perfetta serata tranquilla per riconciliarsi con se stessi. Domani pensiamo a tutto il resto, ma stasera niente deve turbare questa bellissima quiete. Stasera deve andare così e, tanto per rimanere sulla linea della citazione cinematografica: domani è un altro giorno!





giovedì 11 luglio 2013

Aspettare stanca!

Lavorare stanca era il titolo di una raccolta di poesia di Cesare Pavese. Italo Calvino parlando del poeta lo definì "un ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell'amore e delle famiglie, senza armi nel mondo della lotte cruente e dei doveri civili": in un certo senso, un precario di altri tempi! Con la differenza che, per il precario, stancarsi lavorando, più che un sentimento di malessere fisico e psicologico, è un'aspirazione!
Ma se non si stancano a lavorare, i precari sono stanchi di molte altre cose: sono stanchi di doverlo cercare un lavoro, di dover firmare vergognosi contratti che prevedono molti doveri e pochi diritti, di dover sempre dimostrare di essere indispensabili e all'altezza del compito da svolgere. Sono stanchi di doversi sempre organizzare in previsione dell’approssimarsi di un periodo di disoccupazione, di doversi inventare in una nuova figura professionale e di dover organizzare il resto della propria vita secondo i nuovi e provvisori orari di lavoro. Sono stanchi di aggiornare il proprio curriculum vitae, di affrontare inutili colloqui al centro per l’impiego o surreali appuntamenti con gli impiegati allucinati delle agenzie interinali che, fra l’altro, sono quasi più precari dei lavoratori che cercano di collocare! I precari sono stanchi di sentire che la percentuale di disoccupazione ha raggiunto livelli mai visti e di leggere delle proposte del Governo per il rilancio dell’occupazione che qualche mese dopo si riveleranno del tutto inefficaci.
Io, per esempio, sono stanca di studiare per un concorso che avrei dovuto fare ieri ma che, pare a causa di un alto numero di domande di partecipazione, è stato rimandato, una settimana prima del suo svolgimento, al 10 ottobre! Anche se ora godo dei benefici di un sospirato fine settimana trascorso in spiaggia, anziché a sudare sui libri, l’idea di dover passare ancora dei mesi con il pensiero di dover affrontare l’ennesimo concorso pubblico, mi fa calare addosso un opprimente senso di spossatezza. Sono bloccata in attesa di una data che mi spaventa ma che non vedo l’ora che arrivi! Ecco quello che mi stanca di più: non è lavorare o studiare, è aspettare!
I precari sono stanchi di aspettare la data di concorso, l’inizio o la fine di un contratto, la pubblicazione di un bando, la decisione di una commissione sull’esito di una selezione, il momento giusto per comprarsi una casa, per fare un figlio, per comprare l’auto nuova con una finanziamento. 

I precari sono lavoratori/cittadini/adulti in stand-by: circuiti elettrici pronti a partire, stanchi di aspettare e ansiosi di riprendere in mano la propria vitaMa da precaria, con colleghi e amici precari, vi assicuro che per un precario che si strugge nell’attesa, ce sono tanti che non si rassegnano e che, nonostante tutto, senza illusioni o false speranze, pur non avendo ben chiaro dove e come lavoreranno domani, sanno bene quello che vogliono oggi e non hanno voglia di rinunciarci. E questa non è una minaccia ma una promessa: la premessa che ce la metteremo tutta e che non staremo ad aspettare Godot!




sabato 18 maggio 2013

Se anche le parole diventano precarie – Terza e ultima parte – Precario: nome comune di persona

Dalla campagna elettorale per le ultime elezioni politiche ad oggi non so quante promesse e buoni propositi ho sentito spendere in merito alla disoccupazione e al lavoro precario da parte degli esponenti politici che, per lavoro appunto, dovrebbero risanare il nostro Paese. Quanti discorsi che, con sdegno e tono grave, ci ripetono fino alla nausea la percentuale di disoccupazione, l’impoverimento della società e il dilagare del lavoro precario! Un bombardamento di parole che collassa su se stesso e più che dare il senso dell’impegno per risolvere una situazione, offrono la sensazione che nessuno dei nostri rappresentanti politici abbia idea di quello che si può e si deve fare. Tutto ciò porta ad una conseguenza orribile e paradossale: a forza di blaterare e urlare in maniera sconsiderata concetti privi di un reale progetto di attuazione, c’è il rischio di banalizzare e rendere cliché quelli che sono invece tangibili problemi reali. Pensiamo, per esempio, proprio al termine precario, l’ho sentito associare a tutto di più: generazione precaria, scuola precaria, governo precario, relazioni precarie, matrimoni precari, vite precarie, maternità precaria, giustizia precaria … per un po’ abbiamo avuto anche una papa precario! “Precario” è diventato ormai un termine immediato, chiaro ed elastico per descrivere tout court tutto quello che non va come dovrebbe e, in un certo senso, per giustificarsi spiegando che il blob del precariato sta invadendo ogni livello della società e dell’esistenza per la degenerazione della crisi contemporanea. 

Il precariato, anziché essere considerato il risultato di scelte politiche ed economiche rivolte solo al tornaconto personale o di pochi privilegiati, di un sistema clientelare dove sussiste ancora la logica mafiosa della famiglia e dove le strategie di sviluppo sono un mero scambio di favori, viene propinato come la conseguenza fisiologica di una crisi descritta come una malefica entità sovrannaturale che arriva da Marte! E il precario diventa sempre più precario: naturalizzato come abitante della nuova Precarialand, non è più una situazione critica da risolvere, ma un nuovo stereotipo del mondo contemporaneo, perde consistenza e diventa una parola ad effetto per strappare un applauso in un talk show o per rendere credibile e convincente un programma elettorale. Non sono un concetto evanescente, vi assicuro che i precari esistono, non sono una fiaba messa in giro per spaventare i bambini poco diligenti: “Studia che altrimenti diventi precario e lo rimani per tutta la vita”. Precario è una parola importante, da utilizzare con il rispetto e la competenza che gli sono dovuti, non è uno slogan efficace per guadagnare consenso e non è nemmeno un palliativo per giustificare l’incompetenza e il disimpegno della politica. Quante volte lo sentiremo dire: “d’altra parte questo è un periodo di crisi, un periodo precario, non possiamo pensare di risolvere tutto in breve tempo”. Cari politici, basta parole, ora i fatti perché io sono una precaria e mi sono rotta:







sabato 11 maggio 2013

Se anche le parole diventano precarie – Seconda parte - Il nipote, la carrozza e il rettore


Dopo la nomina del nuovo Presidente del Consiglio e la scelta dei nuovi ministri, il sito dell’Università di Pisa non poteva perdere l’occasione di rendersi partecipe e pubblicare, sul sito www.unipi.it, una news dal titolo Letta e Carrozza, risorse al servizio del Paese. L’Ateneo saluta con soddisfazione la nomina nel nuovo governo dei suoi laureati. Come ricorda l’articolo, il premier Enrico Letta e Maria Chiara Carrozza, Ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, si sono laureati entrambi nell’ateneo pisano e, successivamente, specializzati alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Sono curiosa e leggo i curricula dei due nuovi componenti del governo.

Enrico Letta nasce a Pisa nel 1966. E’ figlio di Giorgio Letta professore di Calcolo delle probabilità all'Università di Pisa, socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei e dell'Accademia Nazionale delle Scienze e nipote di Gianni Letta, uno dei principali collaboratori di Silvio Berlusconi. Trascorre parte dell'infanzia a Strasburgo dove frequenta la scuola dell'obbligo. Si laurea in Scienze politiche (indirizzo politico-internazionale) all'Università di Pisa. Consegue il perfezionamento (equivalente al dottorato di ricerca) in Diritto delle comunità europee presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Beh, diciamocelo: il curriculum vitae del nuovo premier non è proprio quello di uno studente medio dell’Università di Pisa! Speriamo comunque che, anche se giunto appena venticinquenne alla presidenza dei Giovani del Partito Popolare europeo, un po’ di affezione per l’università gli sia rimasta nel cuore e che la parole Se ci saranno dei tagli su cultura, scuola e ricerca, mi dimetto, dichiarata nella puntata del programma Che Tempo che fa di domenica 5 maggio, non sia l’ennesimo sproloquio per strappare un applauso del pubblico in sala.

Maria Chiara Carrozza ha una storia decisamente più genuina (in cui, quanto meno, non appaiono zii lacchè di Silvio Berlusconi) e che ce la presenta come una studiosa di altissimo livello: Professore di Bioingegneria Industriale all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; ha conseguito il PhD in Ingegneria (1994) presso la Scuola Superiore Sant’Anna e si è laureata in Fisica (1990) presso l’Università di Pisa. E’ membro della “IEEE Society of Engineering in Medicine and Biology” (EMB), della “IEEE Society of Robotics and Automation” (R&A), del Gruppo Nazionale di Bioingegneria (GNB). Il punto debole si mostra quando ci addentriamo a conoscere la sua ascesa politica: pettegolezzi e malelingue sussurrano che Carrozza sia la compagna di Umberto Carpi, sottosegretario dell’Industria durante il governo D’Alema proprio quando l’ex-segretario PD Pierluigi Bersani era ministro. Il patologico nepotismo della politica italiana mi avvelena la mente, ma ripenso a Nilde Iotti, compagna di Palmiro Togliatti, e a Mirian Mafai, di Giancarlo Pajetta, che furono molto più che “mogli di” e, da precaria dell’università, alle volte in cui il neo Ministro ha espresso la propria volontà di impegnarsi in favore del sostegno della ricerca e del lavoro precario nella scuola e nell’università e che forse mi posso sbilanciare a darle un po’ di fiducia.

Chissà se il Rettore dell’Università di Pisa, Massimo Augello, laureato in Scienze Politiche all’Università di Pisa ,sotto sotto, non provi un po’ di stizza verso i due ex-compagni di università che, dai vertici del governo del Paese, si esibiscono in mirabolanti e impavide promesse di crescita dell’Italia. Le parole chiave sono lavoro, istruzione e innovazione: LINK

In ogni caso, sul fronte dell’autoesaltazione verbale anche il Rettore dell’Università di Pisa, non perde occasione per far parlare di sé e, in un articolo di sabato 20 aprile del quotidiano Il Tirreno, dichiara: “l’ateneo pisano ha deciso di investire in tutti gli ambiti strategici per il presente e il futuro. Stiamo varando un piano triennale di reclutamento e di assunzioni che prevede l’impegno di circa 10 milioni di euro, senza utilizzare la leva delle iscrizioni e grazie alla solidità del nostro bilancio”. Che importa se il piano triennale per il personale sia un obbligo introdotto dalla Legge 240/2010 (la famigerata Legge Gelmini); che, solo limitandoci ai precari del personale tecnico-amministrativo dell’ateneo, ne verranno assunti al massimo una quindicina nell’arco di un triennio e che, in questi primo semestre del 2013, sono stati stipulati nuovi contratti a tempo determinato con persone che non hanno mai lavorato nell’ateneo pisano: e se ciò, da una parte, vuol dire dare l’opportunità ad altri di lavorare, dall’altra significa alimentare il lavoro precario e le aspettative di chi si ritroverà a breve di nuovo disoccupato. Che importa tutto questo quando i quotidiani titolano un articolo con queste belle parole: “Il rettore: 10 milioni per le assunzioni”?



In conclusione, cari lavoratori precari e, in particolare (… per diretto coinvolgimento personale!), cari precari dell’Università di Pisa, state tranquilli che a voi pensa il vostro impavido Presidente del Consiglio, la scienziata, ricercatrice, docente, manager, mentore Maria Chiara Carrozza e il Rettore dell’Università di Pisa. Cari precari, siate tranquilli e fiduciosi, vedrete che ci sarà lavoro per tutti e in abbondanza e, soprattutto, non siate maldicenti e non pensate che siano tutte e solo parole! Parole, parole, parole. Parole, parole, parole. Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi. Chiamami tormento dai:

domenica 28 aprile 2013

Audentes fortuna iuvat


Sono fortunata. E’ un aggettivo che, in questi ultimi tempi, mi sono sentita attribuire spesso. Sono fortunata perché , sebbene precaria, da qualche anno ho un lavoro. Sono fortunata perché, sebbene precaria, la mia banca mi ha concesso un mutuo con cui ho potuto acquistare un terratetto con un resede e un’entrata indipendente. Sono fortunata perché, sebbene ancora precaria, arrivo a fine mese senza il fiato dei creditori sul collo e mi posso permettere anche qualche vizio. Sono fortunata perché sono sana e le persone a cui voglio bene godono di piena salute. E potrei andare avanti ancora per molto tempo: sono fortunata perché nessun meteorite ha colpito il paese dove vivo. Sono fortunata perché mi piace il latte e, dato che non soffro di colite, ne posso bere quanto mi pare. Sono fortunata perché non ho la cellulite e non soffro di ritenzione idrica. Sono fortunata in amore. Sono fortunata perché non mi chiamo Candy Candy e non sono cresciuta in un orfanotrofio che, come se non bastasse, si chiama “Casa di Pony”.

E quando mi dicono che sono fortunata che faccio? Di solito abbozzo un sorrisetto, annuisco senza fiatare e cambio discorso perché sono stanca di spiegare quanto sia inopportuno, superficiale e sciocco parlare di fortuna e quanto, definirmi tale, dimostri una totale mancanza di rispetto verso quello che faccio, di etica del lavoro e di ignoranza rispetto ai veri problemi che ci impediscono di superare questo momento di stallo.
Avere e trovare un lavoro, anche in un periodo critico come questo, non deve essere mai e poi mai considerato una fortuna. Una fortuna è vincere al gratta e vinci, il lavoro invece è un diritto, è libertà, è la linfa vitale che alimenta il progresso culturale, civile e spirituale degli individui e, di conseguenza, della società. Pensare che avere un lavoro sia una fortuna è un’idea distorta e pericolosa che rappresenta una resa all’irrazionalità, al disimpegno, alla mollezza e che permette, a chi dovrebbe impegnarsi ad elaborare seri e proficui piani di assunzione, qualificazione e valorizzazione del personale, di approfittare della “crisi” abusando delle più svariate forme contrattuali per assumere in maniera arbitraria, sfruttare il personale che non è tutelato da forme contrattuali solide e a tempo indeterminato e far dilagare sempre di più il fenomeno del lavoro precario.

E poi, chi dice che sono fortunata, sa cosa ho fatto per avere questo invidiabile lavoro a tempo determinato? Il liceo scientifico, l’università , il master in comunicazione pubblica e politica, i lavoretti per arrotondare quando ero una studentessa e quelli a cui mi sono dedicata con serietà e impegno e da cui mi sarei aspettata qualcosa di più che un “arrivederci e grazie”. I contratti co.co.co. da 700 euro al mese e da nove ore di lavoro il giorno, senza ferie, malattia e non parliamo della maternità. I tirocini dove il massimo di stipendio che ti potevi aspettare era un contenuto rimborso spese. E dormire cinque ore a notte per partecipare all’ennesimo concorso, ottimizzando al massimo i tempi dedicati a tutte le altre attività della vita quotidiana, non tanto per vincerlo ma per entrare in graduatoria.

Vorrei dire che la prossima volta che qualcuno mi dirà che sono fortunata avrà di che pentirsene ma considerato che non voglio accanirmi con chi avrà la malaugurata sorte di scegliere un termine per me parecchio sfortunato, risponderò con le parole di un sommo poeta: la fortuna aiuta gli audaci.






lunedì 17 dicembre 2012

Il manuale del giovane precario – Il colloquio orientativo al Centro per l’Impiego


Se siete tra i precari “fortunati” che prima di perdere un lavoro sono riusciti a maturare i requisiti per la richiesta dell’indennità di disoccupazione, dopo circa due mesi dalla dichiarazione dello stato di disoccupazione, dovrete recarvi al centro per l’impiego per sottoporvi al cosiddetto  colloquio di orientamento.

Presentarsi al colloquio è fondamentale per continuare a percepire l’indennità di disoccupazione (la mancata presentazione senza un motivo giustificato prevede la sospensione del pagamento), ma, come tengono a sottolineare gli impiegati del Centro per l’Impiego, l’importanza e il senso del colloquio non è tanto il mantenimento della disoccupazione (…e se pensiate che sia così siete solo una massa di bamboccioni fannulloni e un po’ choosy che bivaccano sul divano alle spese dello Stato!...), ma la stipula del “patto di servizio integrato” (D.Lgs. 297/02 e Reg RT n. 7/04).

Che cos’è il patto di servizio integrato? E’ un documento cartaceo, sottoscritto dal cosiddetto orientatore e dal disoccupato, in cui entrambe le parti si impegnano al compimento di azioni rivolte all’inserimento lavorativo e/o alla partecipazione ad un percorso formativo.

In particolare il Centro per l’Impiego si impegna ad offrire i seguenti servizi:

- accoglienza del lavoratore/disoccupato
- illustrazione del percorso/progetto e degli obiettivi che si vuole raggiungere
- consulenza per l'analisi e l'individuazione dei bisogni professionali, anche a partire da una rivisitazione dello storico professionale
- costruzione di un piano di azione individualizzato, che diventa parte integrante e sostanziale dello stesso Patto. Il Piano deve prevedere le disponibilità della persona nei confronti di proposte formative e/o lavorative, esplicandone anche le motivazioni. Fra i servizi si possono prevedere: colloqui di orientamento, tirocini o w.e., voucher per la partecipazione a percorsi formativi, colloqui di inserimento in azienda, candidature ad offerte di lavoro
- consulenza per stesura di c.v.
- consulenza per la preparazione a colloqui di selezione
- consulenza per l'analisi di un'idea di lavoro autonomo, verifica del business plan, collaborazione al progetto di avvio d'impresa, consulenza sui finanziamenti per il sostegno alla creazione d'impresa
garanzia di riservatezza delle informazioni ricevute e dei percorsi concordati, fatti salvi gli scambi di informazione con altri servizi pubblici che partecipano allo sviluppo del progetto

Il disoccupato si impegna invece a:

- sostenere il colloquio con l'operatore del CPI per definire il bisogno e iniziare a definire ed impostare il Piano di azione individualizzato
- partecipare agli incontri, ai colloqui, ai progetti e percorsi definiti precedentemente con l'operatore e facenti parte del Piano di azione individualizzato
- candidarsi per gli annunci di lavoro compatibili con il proprio profilo professionale, anche con il supporto consulenziale dell'operatore del CPI
- sostenere eventuali colloqui di inserimento/selezione con aziende selezionate dal CPI
- comunicare entro 24 ore all'operatore del CPI: situazioni, fatti o motivazioni che impediscono la partecipazione della persona al servizio proposto dal CPI; cambio del domicilio; accettazione di un'offerta di lavoro, anche se a tempo determinato; partecipazione ad un percorso formativo
- leggere ed accettare le modalità di svolgimento del Piano, le regole del Patto e le eventuali sanzioni e conseguenze derivanti dall'inosservanza di quanto concordato.

Devo ammettere che il mio “orientatore” era una signora piacevole, competente e rassicurante che mi ha dedicato quasi un’ora di tempo e non solo mi ha gratificato lodando il mio curriculum vitae e affibbiandomi competenze e capacità che neanche sapevo di avere ma, per almeno tre quarti d’ora di tempo, mi ha permesso di gongolarmi in un favoloso mondo fatto di datori di lavoro generosi, possibilità di crescita, validi corsi di formazione, realizzazione delle proprie aspirazioni e dimostrazione delle proprie capacità. Quasi quasi, quando finalmente ho firmato il mio ambizioso patto di servizio integrato, avrei voluto rimanere ancora un po' accoccolata nella poltroncina color arancio e crogiolarmi in quel promettente e florido  Pleasantville ricco di opportunità.  Ed anche se, nonostante il mio tergiversare, la gentile orientatrice mi ha dovuto liquidare dicendomi –“Mi sembra che abbiamo detto abbastanza”-, ho deciso che non voglio affatto concludere con il mio solito sproloquio sull’inefficacia e l’inadeguatezza dei sistemi di reclutamento, e vi lascio in un wonderful world:




venerdì 23 novembre 2012

Job Meeting or Job Smashing? - PrecariaMente al Job Meeting di Pisa


Martedì 20 novembre, al Palazzo dei Congressi di Pisa si è svolta la XII edizione di Job Meeting PISA, con la collaborazione dell’Ateneo pisano.
Ma cos’è Job Meeting? Job Meeting è un  evento organizzato nelle principali città universitarie italiane in cui, così recita il sito, laureati e laureandi di tutte le aree disciplinari possono incontrare aziende italiane e internazionali presso gli stand appositamente allestiti e nel corso di workshop di approfondimento. Durante la giornata, inoltre, è possibile per tutti i visitatori usufruire gratuitamente di servizi di orientamento e consulenza professionale e informarsi su qualificate opportunità di formazione superiore.

Visti i presupposti, PrecariaMente ha deciso di andare a scuriosare: ma, nonostante tutta la buona volontà profusa per evitare di essere i soliti guastafeste, le belle premesse sono state ben presto disilluse.

Gli stand dell’area espositiva: una galleria degli orrori che va da scuole di alta formazione post laurea dalle rette improponibili - soprattutto in questo periodo di crisi in cui le famiglie fanno già una grande fatica a mantenere i figli di all’università - ad agenzie, gruppi bancari ed assicurativi che, con la remota possibilità di un contratto o, addirittura, di un’appagante carriera, abbindolano con proposte di stage o tirocini freschi neo-laureati speranzosi di trovare lavoro.

I Workshop, o i “Career Lab” inseriti nel programma - ad esclusione dell’incontro con Fabio Rocchi, Vice Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori Confartigianato Pisa, che quanto meno è riuscito ad interessare il pubblico raccontando la propria esperienze lavorativa in bilico fra una laurea in letteratura moderna e l’autoformazione nel mondo del webmarketing - sono stati una serie di informazioni superficiali sull’imprenditoria e discorsi inconcludenti su come scrivere il proprio curriculum vitae e sullo sviluppo personale. I relatori sono stati invece ben chiari nella pubblicizzazione del Master in “Comunicazione, Impresa, Banche ed Assicurazioni” di Eraclito 2000, dove insegnano ben tre delle relatrici dei Career Lab.
In ogni caso devo ammettere che frasi del tipo “ognuno di noi è un piccolo seme”, “lavorare sul fraseggio interiore” pronunciate da Diana Pardini, Direttrice di Eraclito 2000 e del Centro Bancari BPS e SCS e propinate al pubblico di neo-laureati assetati di imparare a scrivere un CV vincente e di precari, come me - talmente incredulo per la banalità sparate dall’oratrice - sono state talmente sconcertanti da togliere il fiato a chiunque intendesse intervenire.

E l’Università di Pisa? Capeggiava la galleria degli orrori con ben tre stand: l’Ufficio Ricerca e Relazioni Internazionali, l’Ufficio Master e l’Ufficio Placement struttura promossa dall’Ateneo che dovrebbe facilitare l’inserimento professionale dei giovani laureati. Ma di che inserimento professionale si tratta? Di stage, tirocini ed altre forme di lavoro atipico ben distanti da un’occupazione stabile e solo capaci di far precipitare i giovani nella spirale del lavoro precario e di un futuro all’insegna dell’ignoto.
In questo contesto l’Università di Pisa assume un ruolo sintomatico della situazione di crisi e degrado in cui ci troviamo: un’università con tasse sempre più alte e sempre meno servizi, sempre meno rivolta all’accrescimento e alla valorizzazione della persona, ma sempre più alla mercé di enti privati.

Citando ancora una volta la Dott.ssa Pardini, chiudo con una frase che vi farà riflettere e che forse riassume il vero senso della giornata “tutti facciamo marketing”.





domenica 18 novembre 2012

Cinema e Precariato


Il film della domenica di PrecariaMente: I lunedì al sole


<<"La peggiore ingiustizia della disoccupazione: vi obbliga ad accettare il primo posto che vi si offre, fosse anche il più contrario alla vostra vocazione, con la minaccia di passare per un perdigiorno e di vedersi rifiutare ogni specie di aiuto e di considerazione amichevole. Beneficio corrispondente: si è costretti a scegliere nettamente tra la propria vocazione e l'opinione."Si tratta di una delle ultime considerazioni proposte da Denis De Rougemont nel suo Diario di un intellettuale disoccupato (Fazi Editore, Roma 1997, pag. 216), pubblicato per la prima volta nel 1937, in Francia. Parole che calzerebbero a pennello come commento a una delle tante scene girate nel bar dove si ritrovano gli amici protagonisti di I lunedì al sole: la scena del litigio, quella in cui l'unità, invocata da Santa (Javier Bardem) come unica risposta efficace alla politica dei licenziamenti, viene derisa con sufficienza da chi ha ancora un lavoro. La stessa unità che, tra amici, colleghi, compañeros e familiari, appare poi come l'unica reale soluzione, quasi un imperativo, per aprirsi una via di scampo.>>




mercoledì 17 ottobre 2012

Italian Life - Aborto e Precariato

In ogni medical drama che si rispetti arriva sempre la puntata in cui qualche problematica adolescente, per svista o per violenza, rimanga incinta e decida, vuoi perché è troppo giovane, perché si trova in una situazione di indigenza oppure perché ha deciso di ritornare sulla retta via, di dare il figlio in adozione ad un’accogliente, serena e garbata famigliola. Nella maggior parte degli episodi, però, succede che la giovane e sprovveduta madre, al contatto con il tenero pargoletto, decida di sfidare le insidie della vita e scelga di tenere il figlio con sé: a questo punto, a parte qualche secondo di amarezza per i genitori adottivi mancati, tutto si tinge di rosa/celeste, i problemi insormontabili svaniscono e la ragazzina spettinata e imprudente si trasforma in una giovane donna risoluta e sicura di sé. Come si dice: “sono telefilm”, “è solo fiction”.

E' solo fiction, e non ci sono dubbi, perché la situazione, almeno in Italia, è ben diversa. La giornalista Laura Bastianetto, in un articolo pubblicato su Scienza e Salute, racconta il suo viaggio nel reparto per l’interruzione volontaria di gravidanza (Igv) dell’Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma dove ogni giorno si effettuano dieci interventi tra quelli chirurgici e quelli medici (pillola Ru 486).  La Dott.ssa Giovanna Scassellati, responsabile del reparto, alla domanda su chi siano le donne che scelgono di sottoporsi all’interruzione di gravidanza, dichiara:
“Tra il 2010 e i primi 8 mesi del 2012 abbiamo assistito solo 4 minorenni, più di una buona fetta nella fascia d’età tra i 18 e 25 anni, con un picco tra i 26 e i 45. Per il 45% si tratta di ragazze con diploma, il 35% ha la laurea e il restante 20% l’attestato di scuola media”. 


E, durante i colloqui con lo psicologo, alla domanda sui motivi che hanno portato alla decisione di interrompere la gravidanza, le pazienti forniscono sempre risposte riconducibili alla crisi economica : “precarietà lavorativa”, “mancanza di risorse economiche”, “sono disoccupata”, “non posso lasciare il mio lavoro per accudire il bambino”, “mio marito è disoccupato”, “questa gravidanza mette a rischio l’attività lavorativa”, “non sono pronta ad avere un altro figlio”. Si tratta di donne adulte, con relazioni stabili, occupate, con livello di istruzione medio alto che decidono di abortire perché rischiano di perdere il lavoro.

D’altra parte, proprio l’altra settimana, il nostro Premier Mario Monti, durante la visita alla Barilla in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Rubbiamo, si rivolge alla cittadinanza dicendo “Il mondo ci sta guardando per come questa popolazione sta reggendo a questa prova dura e amara, dando prova dell’appartenenza a un Paese che forse si sta rendendo conto che sta cambiando per il meglio. (…) Il popolo italiano sta dando il meglio di sé”.
A questo punto, mi chiedo: ma sto guardando un servizio del telegiornale o un fiction di Raiuno? Oppure: ma Monti conosce veramente la situazione del paese che sta governando o si aggiorna guardando I Cesaroni con Elsa Fornero?
Vabbé, vista la realtà, voglio sprofondare anch’io nella finzione e chiudo lasciandovi con una frase del film American Life:

I bambini resistono. Sono predisposti geneticamente. Sono già fottuti usciti dalla pancia, avranno un cellulare, se la caveranno!





martedì 2 ottobre 2012

Il lavoro in uno scatto


Il lavoro al Festival Internazionale di Fotografia di Roma.


Il tema portante dell’undicesima Edizione del Festival di Roma, curata da Marco Delogu, sarà il lavoro: dalle visioni tipiche del Novecento alle situazioni più contemporanee, la collettiva “Camera WorK” indagherà una delle tematiche più salienti del nostro periodo.

Dal sito del Festival:
<<Work, un tema spesso indagato dalla fotografia, è trattato in questa mostra in molteplici articolazioni.
Parola chiave dell’ultimo periodo di crisi, il lavoro è sempre stato al centro della ricerca fotografica nei suoi diversi ambiti e linguaggi. In un festival interamente dedicato a questo tema, la collettiva Camera Work ripercorre percorsi della fotografia che, partendo da fatiche epiche e grandi masse, arrivano a lavori più individuali e a nuovi sistemi di alienazione e schiavitù.>> 


Lavoro in uno scatto - Camera Work


venerdì 17 agosto 2012

Altolà, o il lavoro o la vita!


Su La Repubblica del 14 agosto, la filosofa e scrittrice Michela Marzano, docente associato di Filosofia Morale presso l’Università di Parigi René Descartes, scrive: “Fino a quando si continuerà a contrapporre il diritto al lavoro al diritto alla sopravvivenza, e quindi il salario alla salute, non si troverà alcuna via d’uscita al problema dell’Ilva”.

La vicenda dell’acciaieria Ilva di Taranto è ormai tristemente nota a tutti ed altrettanto nota è la capacità - ormai sancita come la più sfruttata e, ahimè, efficace forma di divulgazione delle informazioni da parte dei mezzi di comunicazione di massa italiani - di trasformare ogni evento tragico, scandaloso o eclatante della vita del nostro paese, dalla cronaca nera alla politica, in entertainment. Il procedimento è sempre lo stesso: esplode lo scoop e si definiscono i soggetti attori della vicenda, le parti pubbliche, a vario titolo e livello (politici, esperti, giornalisti eccetera), prendono la loro posizione: così la notizia iniziale, come un fiume in piena, gonfia ed esonda in ogni settore della comunicazione di massa fino a degenerare in un furioso, pirotecnico e confusionario battibecco collettivo che cresce, ma non si evolve, si allarga in una moltiplicazione polifonica di voci urlate e stonate, ma non riesce, e non si impegna, ad istaurare un dialogo razionale. Si arriva a quello che Michela Marzano, “filosoficamente” parlando, definisce il “falso dilemma”:

<< si assolutizzano i valori chiave in gioco (…) mostrando che l’uno si oppone inesorabilmente all’altro, e che l’unico modo per uscire dall’impasse è quello di sacrificarne uno dei due. E’ la tecnica argomentativa dell’aut-aut. Per concludere cinicamente che “terzium non datur”>>

E così sta accadendo per la vicenda dell’Ilva. Da una parte la disperazione, condivisibile, di chi rischia di perdere un lavoro - “Preferisco morire fra vent’anni di cancro, piuttosto che tra pochi mesi di fame” -  e dall’altra la risposta, legittima e razionale, di alcuni ambientalisti locali – “Preferisco morire subito di fame, piuttosto che vedere i miei figli deperire e ammalarsi”. Poi c’è il gip di Taranto, Patrizia Todisco, che ha deciso di bloccare i lavori in attesa della bonifica, il Presidente dei Verdi e Antonio Di Pietro che appoggiano i magistrati che difendono il diritto alla salute, i sostenitori dell’attività economica che intravedono, nelle posizioni precedenti, solo degli ulteriori vincoli allo sviluppo industriale del paese e il New York Times che definisce l’Italia un paese “antiquato e pittoresco”. In questa maniera si configura una situazione di contrapposizione, di “ricatto”, come la definisce Marzano, tra diritto del lavoro e diritto alla salute che non dà nessuna logica e giusta possibilità di scelta, poiché qualsiasi opzione avrebbe in sé conseguenze disumane e fisicamente, in senso letterale, annientatrici per una delle preziose parti i gioco.


Manifestazione operaia


Cito ancora la filosofa:

<<Eppure i progressi della tecnologia e l’esempio di molti altri paese europei mostrano che non c’è alcun bisogno di contrapporre salute e lavoro (…). Speriamo allora di uscire da questo “falso dilemma” e ritrovare la via della ragione, invece di cedere alle sirene della dialettica sofista. Non solo per salvare al tempo stesso il lavoro e la salute, ma anche per evitare che, in nome della salvaguardia dell’ambiente, sia proprio l’ambiente ad essere sacrificato. Chi può essere così ingenuo da pensare che un problema come quello del risanamento ambientale di zone già fortemente danneggiate possa essere preso in considerazione e risolto se l’Ilva cessa ogni attività? E’ solo un esempio. Che non deve far perdere di vista la necessità di portare avanti un’attività e una produzione sostenibile. Ma talvolta la filosofia del senso comune permette, molto più dell’idealismo, di non cadere nella trappola dei falsi dilemmi che, quasi sempre, finiscono in tragedia.>>
Oltre che a condividere totalmente le parole di Michela Marzano, sono dell’avviso che il pensiero del “non cadere nella trappola dei falsi dilemmi” fosse messo in pratica anche da chi, in questi ultimi tempi, ci governa e, magari, anche da chi, in vista di più o meno probabili elezioni politiche, si prepara per andarci a governare. Vorrei che, finalmente, chi è chiamato - perché eletto dal popolo o perché scelto a ricoprire un ruolo in qualità di tecnico - a gestire la cosa pubblica non si nascondesse più dietro all’onta della crisi e, a causa di ciò, proponesse soluzioni vergognose, inique e inconcludenti, come la Riforma del Lavoro del Ministro Fornero, ma, valutando la delicatezza delle parti in gioco, della gravità della situazione e coinvolgendo i diretti interessati, arrivasse a trovare soluzioni concrete per il miglioramento della situazione del paese.

Ma alle volte è troppo più comodo l’aut-aut.

Sara C.

venerdì 10 agosto 2012

Errore di ridondanza ciclico


Mi ricordo, un paio di anni fa, Fausto Bertinotti, ospite del programma televisivo Che tempo che fa, che, intervistato dal conduttore Fabio Fazio, elencava con sussiego – e con tutto l’arsenale da intellettuale dispiegato: dalla sua erre labiodentale, alla giacca di velluto con le toppe sui gomiti – gli incarichi ricoperti dopo essersi dimesso dalla politica istituzionalizzata – o stipendiata, scegliete pure il predicato che preferite – che andavano da docente di diritto, a presidenze di vario genere. Ora, immaginando che il compagno Fausto non possieda  l’altruistica vocazione del volontario, tutte queste funzioni saranno parcellizzate e si cumuleranno col reddito prodotto dal vitalizio che spetta ai politici di lungo – o anche brevissimo – corso, senza contare le indennità che renderanno meno preoccupante la vecchiaia di un presidente della Camera.

La Fornerina, senz’altro Silvia Deaglio mi permetterà l’affettuoso vezzeggiativo, figlia dell’impetuosa Elsa – la immagino madre incostante: frignona mentre impartisce severe punizioni e impassibile mentre sentenzia che i diritti dei figli vadano conquistati – ha due lavori, proprio mentre in Europa si registra il più alto tasso di disoccupazione dell’ultimo decennio: docente all’Università di Torino e responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica, genomica e proteomica umana. Il curriculum e le referenze parlano per lei, se non fosse che l’università è la stessa dove insegnano i genitori e la Human Genetics Foundation è stata creata dalla Compagnia di San Paolo quando Elsa ne era vicepresidente. 
E se non fosse che recentemente il precariato ha investito anche i Normalisti, nonostante il loro curriculum non sia da meno.


Un anno fa L’Espresso pubblicava il caso, davvero tutto italiano, di politici che percepivano indennità da due o più incarichi. Si contano una trentina, abbondante, di sindaci, dodici presidenti di provincia, quattro assessori e cinquantaquattro consiglieri comunali che continuano stare comodi pure sulle poltrone di deputato o senatore. O viceversa.

Il primo esempio ci racconta di un individuo della schiatta sempre più esclusiva, grazie ad Elsa, dei pensionati d’oro che non riesce ad abbandonarsi all’idea di lasciare ai giovani maggiore spazio magari limitandosi, in disparte, a concretizzare il proverbio dar consigli è proprietà dei vecchi, i fatti sono dei giovani. La seconda riesce, col proprio esempio, a contraddire lo zio Mario intorno ai concetti di equità e monotonia. Il terzo capoverso ci parla di una casta tesa ad accumulare piuttosto che amministrare. L’Italia è dunque un paese per vecchi – che oscilla inquietantemente tra baronismo e gerontofilia; vi ricordate la fotografia che ritraeva Monti ed il primo ministro finlandese? -, per raccomandati e nel quale la distribuzione della ricchezza è profondamente squilibrata


Monti e suo nipote? No, è un collega



Eppure, parafrasando le parole di Shylock  ne Il mercante di Venezia di Shakespeare verrebbe da chiedersi se tutti gli uomini siano eguali o se solo ad alcuni sia dato sacrificarsi maturando pensioni bassissime e rendendo più competitiva la nazione, agli occhi degli investitori, con il precariato sempiterno, per risolvere questo momento di crisi.


Francesco C.

Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?



martedì 31 luglio 2012

La ricerca di un nuovo lavoro


Ovvero, Le mirabolanti avventure della Baronessa di Munchhausen

La data di scadenza del mio contratto di avvicina e, come se fino ad ora non lo avessi fatto, è tempo di darsi da fare: di guardarsi attorno, rinunciando un poco alla pompa che apparterrebbe alla noblesse oblige.
Ebbene, ho deciso che inizierò una ricerca a tappeto sul territorio pisano per capire, in prima persona, cosa offre il mondo di oggi ad una precaria, non più troppo giovane, ma laureata e qualificata.

Ho deciso di chiamare queste mie catàbasi che - per vostra gioia e brama di conoscenza - condividerò, Le avventure della Baronessa di Munchhausen, in onore del Barone di Munchhausen dei racconti di Rudolf Erich Raspe che, da bambina, adoravo.

Orbene, popolo di precari, vi vado a raccontare la prima avventura dell’indomita, risoluta e, ovviamente, bella... - scopro con orrore che il maschilismo aristocratico mi ha privata del femminile di rampollo - ereditaria di Munchhausen che, senza contratto e senza macchia, si batte contro il lutulento e irriducibile golem del precariato.


Da Le avventure della Baronessa di Munchhausen, PrecariaMente presenta:

I corsi professionalizzanti della Provincia di Pisa

Tra gli innumerevoli pregi della Baronessa di Munchhausen c’è sicuramente l’umiltà: nonostante il suo curriculum vitae possa vantare un lungo e pedante elenco di esperienze formative, lauree e conferimenti di qualifiche professionalizzanti, lei non pensa mai di sapere troppo - a guisa di Socrate - ed è così che decide di partecipare alla selezione della Provincia di Pisa per un corso di formazione in Gestione ed amministrazione del personale, realizzato attraverso il partenariato tra il COPERNICO scarl e il Cescot Toscana Nord

Il bando dice:

“Il progetto è volto a sostenere l’innalzamento dei livelli di qualificazione e professionalità mediante una strategia di apprendimento permanente dì finalizzato all’inserimento lavorativo, volto ad ampliare, anche attraverso incentivi, l’accesso e la permanenza degli individui nei percorsi di apprendimento lungo l’arco di tutta la vita”.

Ora, se state leggendo pubblicamente quest'operetta assisi entro un salotto sofisticato ma mondano, il vostro tono dovrebbe emulare - per accrescere di pathos le parole seguenti - quello della voce narrante di Fantozzi. E così la baronessa decide di partecipare. 

La scadenza del bando è il 26 giugno, la selezione per l’ammissione il 24 luglio.
La selezione prevede, prima di tutto, un test a risposta multipla per la verifica delle competenze informatiche, dopo il quale verrà stilata una graduatoria di cui solo i primi 50 candidati accederanno al colloquio orale.

La baronessa si accomoda nell’aula dove verrà effettuato il colloquio: è curiosa e si guarda intorno, squadra le persone dalla testa i piedi e - quale Michele Apicella del film Bianca di Nanni Moretti - cerca di capire, dalla maglietta, dalla minigonna o dalle scarpe, che idea vorrebbero dare di loro ai selezionatori. E che cosa penseranno, i popolani, della baronessa?

La baronessa supera brillantemente l’elementare - quasi un’offesa alla sua nobile intelligenza - test di informatica ed ora non le resta che attendere le 16 per il colloquio. Nella sala d’aspetto sbircia le pubblicità delle altre offerte formative: fabbro, collaboratrice domestica, corso in tassidermia.  Perdincibacco, tassidermia?
Il colloquio è un tripudio di complimenti per la cultura, le esperienze pregresse e gli studi della baronessa: addirittura, l’ardito psicologo del lavoro, si lascia sfuggire un complimento per gli occhi sorridenti ed espressivi della giovane pulzella che ormai si vede nel gruppo dei 12 che saranno ammessi al corso di formazione. Addirittura, un altro ceffo si permette di dirle che il dialogo è, invero, alla pari e - dicendolo quasi costernato - vorrebbe evitarle l'esperienza di un corso da passare spalla a spalla con undici plebei.

E invece, ahimè, che delusione scoprire che la tanto grandemente lodata preparazione della baronessa di Munchhausen, orgoglio e punto forte delle sue avventure contro la lotta al precariato, è stato proprio ciò che l’ha tradita: esclusa perché troppo qualificata! Oltre all’oltraggio anche l’umiliazione pubblica: esima!

Vabbè, dov’è che ci si iscrive per la tassidermia?


La Baronessa



venerdì 27 luglio 2012

Pubblicamente umiliat… laureati



Già da qualche giorno stavo rimuginando su quanto sia umiliante essere laureato. Mi spiego meglio: girovagavo in rete e mi sono soffermato a leggere il blog di Francesca Coin su Il Fatto online, scoprendo che, in passato, il consorzio Enfapi ha posto per le strade un manifesto che rappresentava il destino che, secondo qualche stratega della comunicazione, sarebbe dovuto spettare ad un giovane laureato e ad un giovane professionista sprovvisto di eguale titolo di studio. Il primo è chiaramente – per usare un termine tanto caro alla retorica politica di questo periodo – uno sfigato, il secondo invece trasuda una paccata – idem – di charme.


Precario, Laureato e Sfigato o affascinante?



L’Enfapi è finanziato dalla Regione Lombardia, la stessa regione che ha la sua parte politica, almeno per un numero cospicuo di esponenti, puntigliosamente annotata nei taccuini della magistratura e in cui era stato eletto Renzo Bossi, chiamato da suo padre la trota in luogo di delfino. Il giovanotto ricciuto, resosi famoso per la sua non brillantissima carriera scolastica – dobbiamo ai greci la definizione di eufemismo – e per alcune sfortunate apparizioni video  - nelle quali, rispettivamente, cerca di articolare il sostantivo pluralismo, inventa il verbo proséguere  e, ospite da Daria Bignardi, si mostra incapace di elencare tre valori  a cui ispirare la propria carriera politica - ha tentato in maniera moralmente fraudolenta – ovvero, attraverso il denaro e i contatti privilegiati di un partito chiaramente ispirato dalla lezione mafiosa – di conseguire la laurea in Albania. E qui ho avuto la seconda epifania: il laureato è sfigato ma – eccezione! – solo se non è in possesso delle giuste referenze – volevo dire raccomandazioni; in questo caso la laurea è semmai necessaria giustificazione del proprio approdo.

Lo devono aver saputo bene Luca Luciani, manager rinviato a giudizio per l’inchiesta sulle sim false Telecom e la turma di bocconiani che dirige attualmente il paese. Il primo, laureatosi all’università privata LUISS, ha raggiunto la fama per aver presentato Napoleone, una volta chiamato pure Napoletone, quale vincitore della battaglia di Waterloo, durante un discorso motivazionale tenuto ad agenti TIM, creando, in questo modo, un danno all’immagine aziendale – del quale ha dovuto scusarsi con tutti i dipendenti - e dubbi intorno ai requisiti con cui si selezionano i dirigenti in Telecom. Anzi, certezze: sicuramente tra i parametri analizzati dall’ufficio risorse umane sono escluse le nozioni storiche apprese alle elementari.

I secondi, presentatisi con la sicumera dei presuntuosi - nonostante la loro cultura istituzionalizzata sia stata acquistata alla Bocconi, altra università privata - stanno cambiando il paese accentuando le diseguaglianze economiche – invece che lenirle – e, di conseguenza, affossando i consumi e rendendo sempre meno credibile l’economia italiana agli occhi del mercato finanziario e degli investitori. E non voglio neppure addentrarmi nella questione degli esodati o dell’articolo 18.

Ma quelli che si son laureati all’università pubblica e che non godono di raccomandazioni fanno così schifo? Vista la situazione delle aziende e dello Stato non sarebbe l’ora di farci un pensierino? Lo dico perché ormai i neo laureati presso atenei pubblici non accampano più alcuna pretesa contrattuale, sono umili e pronti all’umiliazione – dicasi call center – quindi sarebbe un investimento a basso costo. Senza contare che non sono degli appestati ma, anzi, delle risorse, dato che possono mettere le conoscenze acquisite con l’impegno – e non comprate coi soldi – a disposizione delle aziende e della cosa pubblica.

Francesco C.

giovedì 26 luglio 2012

Quattro consigli per evitare Cliclavoro


Nelle navigazioni on-line alla ricerca di più o meno interessanti offerte di lavoro, credo che sia capitato a tutti noi disillusi cercatori d’oro di imbatterci nel portale ministeriale per chi cerca e offre lavoro su internet: Cliclavoro.
Qual’ è la sua particolarità? Ebbene il servizio è finanziato da noi contribuenti e, secondo quanto indicato in un articolo de Il Fatto Quotidiano del 25/06/2012, solo la parte di sviluppo e conduzione della piattaforma richiede 1,6 milioni di euro più iva a cui vanno aggiunti i costi di sette persone che lavorano a tempo pieno al servizio. Tale cifra ci sembra oltremodo spropositata, soprattutto se consideriamo la quantità di altri siti che svolgono tale servizio gratuitamente per l’utente e la quantità delle persone che accedono e usufruiscono dei servizi di Cliclavoro.

Ma stamani voglio essere ottimista e pensare che se l’attuale governo, in questi giorni seriamente impegnato nell’operazione di spending review, decide di mantenere in vita Cliclavoro, un motivo ci deve pur essere.

Sarà forse perché Cliclavoro offre al demoralizzato e senza più speranze lavoratore precario importanti suggerimenti come quelli dell’articolo quattro consigli per svolgere un’attività che non vi piace? Vediamoli nel dettaglio:

1. Mirate in alto. Se le persone si aspettano il meglio da voi da un’attività che non riesce a piacervi, allora abbattete i “pilastri della mediocrità”. Trovate l’ispirazione nell’autodisciplina e cercate la perfezione in tutto ciò che fate, perché lo sforzo che vi porta all’eccellenza a volte prende il via proprio dal fatto che si porta a compimento un’attività noiosa e frustrante.

Dopo essere stata invasa da un’ondata di esaltazione leggendo che bisogna cercare di abbattere i pilastri della mediocrità, in cui mi vedevo già ruotare su me stessa per ritrovarmi nei panni di una Wonder Woman pronta a combattere contro le raccomandazione e i fannulloni, ecco che la mia eroina volante viene abbattuta da una serie di vuoti paroloni tirati a caso: autodisciplina, perfezione, eccellenza e mi chiedo: ma chi ha scritto questa articolo a cosa stava mirando?

2. Trovate buoni motivi. Ammettiamolo, quanto si è costretti a svolgere attività lavorative poco gradevoli si tende sempre a ritardarle o a fare in modo di evitarle o non portarle a compimento, magari inventando delle scuse. Trovate, invece, sempre un buon motivo per intraprendere l’attività, pensando di concedervi un “premio finale” (una piccola pausa, un caffè) una volta che l’avrete portato a compimenti.

Una piccola pausa? Un caffè? A parte il fatto che questo consiglio stride violentemente con l’ultima riforma della pubblica amministrazione (n.d.r. Riforma Brunetta) ma stiamo parlando di lavoro o del decalogo del buon scolaretto, decisamente poco educativo, di una scuola materna?

3. Trovate il tempo. Quando fate cose che non vi piacciono è facile distrarsi oppure iniziare l’attività o proseguirla in modo non costante, frammentato e distratto, perdendo tempo e sprecando concentrazione. Se non avete delle rigide scadenze per i tempi di consegna, è preferibile utilizzare gli ultimi minuti o le ultime ore della vostra giornata lavorativa per i lavori poco piacevoli: uno sprint finale prima di andare a casa.

Con questo terzo consiglio non sono proprio d’accordo: ma vogliamo perderci la bellezza, per chi può, di distrarsi e perdersi nei propri pensieri? In un romanzo di Amélie Nothomb Stupori e tremori, la protagonista, un giovane donna francese che lavora in una grossa multinazionale giapponese, racconta di fuggire dall’angusto luogo di lavoro concedendosi degli “esercizi di defenestrazione”, che, sostanzialmente, consistono nel guardare fuori dalla finestra e perdersi nei proprio pensieri. Mi dispiace, ma io non rinuncio ai miei meritati “esercizi di defenestrazione” .

4. Focalizzare l’attenzione sul prossimo passo da fare. Indipendentemente da quanto sia noioso, ogni progetto, piccolo o grande che sia, vi condurrà sempre a una fase successiva. E il prossimo passo potrebbe essere un nuovo sbocco per obiettivi più grandi o progetti più ambiziosi. A volte, concentrarsi su qualcosa di più appagante aiuta a svolgere più facilmente e serenamente le attività tutt’altro che gratificanti.

Vabbè, come ho detto voglio essere ottimista e penso di concludere con un happy end, così ho deciso di considerare questo ultimo consiglio come un augurio per tutti noi che viviamo una situazione di precariato lavorativo: un buon auspicio per il futuro che verrà. Ma, soprattutto, spero che sia un augurio per il povero redattore di questo articolo che, costretto a scrivere un pezzo in cui non ha creduto fin dalla prima parola, possa impegnarsi in qualcosa di meno banale, ipocrita e più utile per chi, magari tutte le mattine, si rivolge ai portali sul lavoro con la speranza che, una volta tanto, possa trovare quell’occasione che gli permetterà di dare una svolta alla sua vita.

Sara C.

Wonder Precaria



 
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