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martedì 28 agosto 2012

Precari tedeschi e bugiardi italiani

In questi ultimi mesi l’opinione pubblica italiana è stata sobillata con cura dai mass media e da troppi politici nel vano tentativo di creare un capro espiatorio a cui addossare le colpe di un debito sovrano di circa duemila miliardi di euro: la Germania capitanata da Angela Merkel. Come se non bastasse aver dato della culona all’algida cancelliera, l’ultimo grido della stampa italiana intende farci credere che i precari tedeschi siano al pari di quelli italiani o, ancora peggio, che la più solida economia della zona euro, per sostenersi, propini la stessa cura ai suoi contribuenti: la nauseabonda flessibilità.

Capisco che sia più facile prendersela con la Germania, rea di frenare la BCE nell’acquisto del nostro debito – e quindi spalmarlo sull’Euro come fosse Nutella sul pane – attraverso i titoli di stato o nella creazione degli Euro Bond, invece che ammettere l’incapacità gestionale dei governi che si sono succeduti (c’è chi ne ha riso di gusto) negli ultimi decenni ma sarebbe quantomeno onesto sottolineare le differenze assieme alle affinità.

Da dove cominciare? Dagli stipendi. Un recente articolo de Il Fatto ha calcolato oltre mille euro di scarto tra un operaio tedesco ed uno italiano ma anche in Grecia ed a Cipro si guadagna meglio che in Italia.  Si legge ancora:

Vediamo un po’ più nel dettaglio il caso tedesco. Jurgen parte da una paga base di poco superiore a 3 mila euro e con alcune ore di straordinario notturno arriva a superare un compenso mensile lordo di 3. 700 euro. Le trattenute previdenziali e assicurative sfiorano i 700 euro, di cui 336 per la pensione e 267 euro di cassa malattia. Se si considera che l’imponibile ammonta a 3. 380 euro circa, i contributi pesano per il 20 per cento circa. Marta invece paga circa 170 euro per la pensione. Poi però ci sono circa 18 euro per il fondo previdenziale integrativo e altri 16 euro sono destinati all’assicurazione sanitaria supplementare. Alla fine questi contributi assorbono l’ 11 per cento di un imponibile pari a circa 1. 800 euro, contro il 20 per cento di Jurgen. Poi ci sono le tasse, che pesano sullo stipendio per meno del 10 per cento (9,89 per cento) nel caso dell’operaio Vw. Le ritenute fiscali della dipendente Fiat, al netto delle detrazioni, valgono invece il 13 per cento circa dell’imponibile. Morale: per Marta meno stipendio e più tasse. Peggio ancora: anche se le imposte sono maggiori, l’operaia italiana riceve servizi meno efficienti rispetto al collega di Wolfsburg.


Servizi. Il Welfare State tedesco è uno dei più funzionali del mondo, dal 2005 è in vigore l’ Hartz IV: una volta perso il posto di lavoro, il disoccupato può contare sul 70 per cento dell’ultimo stipendio per 18 mesi, o per due anni se si hanno almeno 58 anni d’età. Superato questo periodo lo stato tedesco oltre alla copertura dei costi dell’affitto e del riscaldamento, sostiene il contribuente con una base fissa di 359 euro a patto che si dimostri di essere alla ricerca di una nuova occupazione. Per agevolare la formazione del futuro professionista, assieme al sussidio di disoccupazione, è previsto il rimborso dei corsi  che intende frequentare per aumentare il bagaglio delle proprie competenze e per coloro che, da disoccupati, aprono partita Iva il sussidio è prorogato nei termini in modo da coprire parte delle spese d’impresa iniziali. Ancora, è garantito un assegno familiare di 215 euro per ogni figlio sino ai 6 anni, uno da 251 euro per un bambino dai 6 ai 14 anni e da 287 euro per figli dai 14 ai 18 anni.

Se assieme a queste notevoli differenze aggiungiamo il modello di concertazione della Volkswagen tra proprietà e sindacati capiamo come mai la disoccupazione giovanile tedesca sia al 7% contro il 31 % di quella italiana.

Davvero i precari italiani sono uguali a quelli tedeschi?

Francesco C.


La Merkel offrirà suggerimenti sui precari a Monti?

 
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