sabato 23 febbraio 2013

Elezioni politiche 2013. Le scelte di un precario.


Lo ammetto. Manca meno di una settimana alle elezioni politiche ed io non ho la più pallida idea di cosa votare.  Non voglio declinare la solita solfa dell’italiano deluso dalla politica, che non ha più fiducia nelle istituzioni e nel sistema dei partiti. La mia indecisione è il risultato di una quanto mai più che consapevole pigrizia mentale, di un’ insofferenza o,  direi quasi, nausea, verso i cliché e i teatrini televisivi pre-elettorali ma anche di un atto di buon gusto, dato il mio non voler assistere ad una delle più brutte campagne elettorali  che si siano viste negli ultimi vent’anni: un chiassoso battibecco di insulti, allusioni sessuali e scene da soap opera capaci di inghiottire gli inconsistenti programmi elettorali.

Nonostante tutto,  dal mio stomaco, una vocina petulante mi ripete insistentemente che votare è un diritto e un dovere, che gli ignavi vanno all’inferno e che esprimere la propria posizione è una responsabilità civile e quindi decido, con un intervento last minute, che sceglierò a chi dare il mio voto leggendo direttamente i programmi elettorali da un preciso punto di vista: quello del  precario che, pur consapevole della tragica situazione del mondo del lavoro, spera in qualche vincente strategia di governo o che in uno strano avvicendarsi di fortunati eventi,  queste elezioni portino un cambiamento positivo.

E la mia full immersion ha inizio.

Da Italia. Bene comune al Popolo delle Libertà. Dal Movimento 5 Stelle a Scelta civica. Monti per l’Italia. Da Rivoluzione civile a Fare per fermare il declino.

Leggo frasi nobili e profonde : “ La nostra visione assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore da rimettere al centro della democrazia, in Italia e in Europa”. Obiettivi ambiziosi e vitali: “Un sistema di welfare che dia sicurezza a tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro”, “Vogliamo creare occupazione attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, politiche industriali che innovino l’apparato produttivo e la riconversione ecologica dell’economia”.  Promesse di risoluzione di gravi problemi civili e sociali: “Risoluzione della questione esodati”, “Vogliamo introdurre un reddito minimo per le disoccupate e i disoccupati”. Termini altisonanti che esprimono concetti di inestimabile valore: democrazia, dignità, welfare, sicurezza, flessibilità, occupazione.

Parole, parole, parole che, forse, se pronunciassi a voce alta e scandita, tenendo in mano una bacchetta e indossando un cappello a punta potrebbero anche far accadere qualcosa ma, concretamente, la ferita della Riforma Fornero, approvata alla Camera con 393 voti favorevoli ed ora rinnegata in qualche modo anche dai partiti che l’avevano votata in Parlamento è ancora aperta. Parole, parole, parole che propongono soluzioni vincenti ma che non chiariscono le cifre, i dati e che non descrivono  quali saranno le risorse che potranno permettere di attuare soluzioni  costruttive e risolutive in materia di occupazione, welfare e pensioni.

Beata ignoranza… Ma perché invece di intristirmi con i programmi politici, di farmi invadere dalla rabbia e dall’amarezza di essere incapace di dare un voto che, quanto meno, ritenga importante e utile, non mi sono rilassata aggiornandomi  sui nuovi tagli di capelli per la prossima primavera-estate?

Vabbè, non voglio darmi per vinta e, da qui a domenica, leggendo e rileggendo, magari ad alta voce, i programmi elettorali vedrò se avranno il prodigioso potere di darmi il coraggio necessario a fare una scelta.

Speriamo di non trasformare qualcuno in ranocchio!







sabato 16 febbraio 2013

Storie di normale precarietà


Finalmente, grazie all’inaspettato scorrimento della graduatoria di un concorso fatto circa un anno e mezzo fa, ho un nuovo contratto e, ovviamente, una nuova scadenza. Si tratta di un contratto a tempo determinato della durata di sei mesi. Se non altro il contratto scadrà a luglio e invece di stare chiusa in casa a guardare il cielo che si esibisce in pioggia, neve, fulmini e saette, me ne potrò andare ad asciugare le mia lacrime da disoccupata in spiaggia.

E così si riparte la mia tranquillizzante routine di lavoratrice precaria: stesso orario della sveglia, stesso autobus, stesso orario di entrata in ufficio. Tutto così uguale ma non proprio.

Arrivo in città un po’ in anticipo e decido di passare alla farmacia aperta 24 ore su 24 ma la farmacia è chiusa: riduzione dei fondi, tagli al personale e soppressione del  servizio notturno.

Sono ancora in anticipo, così decido di festeggiare il primo giorno di lavoro con un bel cappuccino guarnito con del cioccolato fondente. Vado nella mia caffetteria preferita, dove fanno la panna con il latte fresco e la cioccolata calda senza preparati già pronti ma solamente con cacao, latte e zucchero  e scopro che a uno dei dipendenti, un ex-compagno di scuola,  hanno ridotto l’orario lavorativo per una brusca riduzione della clientela.  Di fronte alla situazione, cerco di contenere la mia euforia da primo giorno di scuola, gusto in silenzio il mio cappuccino caldo e me ne vado verso il mio nuovo ufficio.

La mattinata trascorre tranquilla: non ho ancora il computer, il telefono e la cancelleria, ma noi precari siamo abituati a tutto e, nel giro di qualche ora, ho già recuperato una poltroncina con le rotelle, un portapenne e un’agenda da tavolo.

Ed è già arrivata l’ora di tornare a casa. Vado alle fermata per prendere l’autobus e tra gli aspiranti passeggeri dei mezzi pubblici serpeggia una polemica tutt’altro che rassicurante.  Pare che per la carenza di metano e per l’impossibilità dell’azienda dei trasporti di sostenere le spese di manutenzione degli automezzi ormai antidiluviani, molte corse siano state soppresse e così prendere l’autobus è diventata una roulette russa. 

Dopo un’ansiosa attesa di dieci minuti, sono tra i fortunati che riescono a tornare a casa. Ma dopo appena un chilometro,  il mio autobus è già inghiottito dal traffico: la strada è bloccata dai dipendenti dell’ippodromo che non riscuotono lo stipendio da otto mesi e che, giustamente, non ne possono più. A parte il sorriso suscitato da un pony col manto cotonato trascinato in corteo, la situazione mi mette addosso una tristezza infinita. Guardo i visi delle donne e degli uomini, giovani e meno giovani, che con compostezza e dignità reclamano quello che spetta loro di diritto, ma che, con una crisi che ormai è diventata  la legittima giustificazione di ogni oscenità, sembra diventato un optional.

Ed eccomi casa: non posso dire di non essere frizzante per l’idea di essere tornata al lavoro e di non essere speranzosa per le nuove prospettive che si potranno presentare, ma dietro a tutto ciò aleggia un senso di insicurezza e un timore che non riesco a scrollarmi di dosso e i cui motivi mi sembra non necessitino di ulteriori commenti. E’ un malessere che non riesco a descrivere, o rischierei di cadere nel patetico, e che per questo lascio alle parole della piccola Rose, la protagonista del surreale L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender :

«A dirla tutta: il pezzetto che avevo mangiato era squisito. Leggerezza dell’impasto al limone cotto al forno, avviluppato da freschi riccioli di zucchero scuro scuro. Ma il giorno fuori andava rabbuiandosi, e mentre finivo quel primo assaggio, mentre quella prima impressione svaniva, mi sentii dentro un’impercettibile mutamento, una reazione inaspettata. Come se un sensore, fino ad allora sepolto in profondità dentro di me, allargasse il suo raggio d’azione e cominciasse a scrutare tutt’attorno, allertando la mia bocca a qualcosa di nuovo. Perché la bontà degli ingredienti – la cioccolata sopraffina, i limoni freschissimi – sembrava una coltre sopra qualcosa di più grande e di più oscuro, e il sapore di quello che c’era sotto cominciava ad affiorare nel boccone. Certo, riuscivo ad assaporare la cioccolata, ma a folate e di traccia in traccia, in un dispiegarsi o in un aprirsi, sembrava che la mia bocca si stesse anche riempiendo con il sapore della piccolezza, la sensazione del rattrappirsi, dell’inquietudine, assaporando una distanza che non so come sapevo collegata a mia madre, come se sentissi un sapore pregno dei suoi pensieri, una spirale, come se quasi potessi provare il sapore della tensione della sua mascella che le aveva provocato il mal di testa, il che significava che aveva dovuto prendere un certo numero di aspirine, una riga punteggiata di aspirine messe in fila sul comodino, come puntini di sospensione dopo la sua frase: vado a buttarmi sul letto per un po’…»




 
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