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lunedì 22 ottobre 2012

Ddl Stabilità - una conquista molto precaria


Siamo stati storditi con gli effetti speciali emessi dalla retorica del sapere del nuovo governo tecnico ed inebriati dai claims equità, liberalizzazioni e patrimoniale – quest’ultima proposta persino da Confindustria – siamo stati dapprima riportati alla realtà con la riforma pensionistica – gli esodati ancora ringraziano – e l’Imu; infine, la realtà è diventata un po’ più grigia a causa della riforma del lavoro targata Fornero - che se da una parte limiterà gli abusi riguardo ai contratti a progetto e alle partita Iva, dall’altro non incentiva in alcun modo le imprese ad assumere e, ancor peggio, permette di liberarsi dei subordinati antipatici, liquidandoli con al massimo ventiquattro mensilità.

Eppure, niente ci apparirà tanto desolato come al momento in cui il famigerato e sinistro ddl stabilità vedrà la luce. Il ministro Grilli dovrà prima o poi ammetterlo che si sta divertendo un sacco perché altrimenti desterebbe dubbi, circa le sue competenze, il testardo tentativo di far apparire un bastone dalle proporzioni gargantuesche una carota. E’ vero, i due scaglioni più bassi (entro i 15000 € la nuova aliquota stabilita è del 22% ed entro 28000 € quella del 26%) avranno un taglio dell’Irpef che si concretizzerà – udite, udite – in, al massimo, 280 € annue per il reddito di 28000 €. E’ probabile che gli italiani non abbiano tasche sufficientemente capienti! 

A fronte di questo risparmio quasi irrisorio, si prospetta un aumento di un punto percentuale dell’IVA e, conseguentemente, un probabile rincaro dei consumi che inciderà sui risparmi non solo delle due fasce di reddito agevolate dalla riforma ma anche delle altre. Democraticamente. Se non bastasse, ecco le orride franchigie sulle detrazioni e sulle deduzioni per le spese previste dagli articoli 10 e 15 del Tuir, a parte talune eccezioni come le spese per servizi di interpretariato dai soggetti riconosciuti sordomuti o le erogazioni liberali per il sostentamento del clero e della Chiesa cattolica, giacché si rischia che il Vaticano con tutto l’Imu che (non) pagherà si ritrovi in braghe di tela.
Dunque, per portare esempi concreti, si potrà cominciare a detrarre dalle imposizioni trattenute, Irpef e Addizionali, il 19% delle spese mediche sostenute durante l’anno solo a partire da un centesimo oltre le 250 €, come ugualmente avverrà per gli interessi passivi sui mutui per l’acquisto della prima casa o ancora per le assicurazioni vita, le spese per l’istruzione dei figli e sportive. Inoltre, è stato posto un tetto massimo di 3000 € - da cui sono esclusi i redditi inferiori ed eguali a 15000 € (ma tanto sono per la stragrande maggioranza incapienti e quindi non saranno avvantaggiati in nessuna maniera) – sulle spese detraibili che condurrà ad un saldo massimo di 570 €.


Se questo governo vuole combattere l'evasione, direi che ha sbagliato totalmente la strategia da adottare. 




lunedì 24 settembre 2012

Riforma Fornero: il congedo di paternità


Il comma 24 dell’articolo 4 della nuova riforma del mercato del lavoro, la Riforma Fornero, introduce il congedo di paternità, un diritto di cui i padri di altri Paesi europei civilizzati possono usufruire già da anni.
Sebbene il comma sopracitato si ponga l’importante e ambizioso obbiettivo di “sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, le misure di sostegno previste dalla legge risultano decisamente esigue e alquanto inefficaci, soprattutto se pensiamo alla cronica mancanza di normative per la tutela della maternità e al welfare familistico che caratterizzano il nostro Paese.

In pratica, la paternità obbligatoria prevista dalla Riforma Fornero consiste in un giorno di astensione obbligatoria, entro cinque mesi dalla nascita del figlio, e di ulteriori due giorni di astensione continuativi, goduti in sostituzione alla madre, a cui viene riconosciuta un’indennità giornaliera a carico dell’INPS pari al 100% della retribuzione. Inoltre, anche se la Riforma Fornero ha l’indubbio merito di introdurre per la prima volta il concetto di “paternità obbligatoria” nella legge italiana, resta inalterato il congedo parentale, che ha differenza di quello di paternità non si prende al momento della nascita, ma più avanti, e si condivide con la madre. Secondo quanto previsto dal congedo parentale, come si può leggere sul sito dell’Inps, il padre lavoratore dipendente, nei primi otto anni di vita del bambino, può astenersi dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 7 mesi, ma ricevendo un’indennità pari al 30% della retribuzione: questa drastica riduzione del reddito ha come conseguenza che solo il 6,9% dei padri chieda, leggi “si possa permettere”, il congedo parentale.
Per non parlare di tutte quelle forme contrattuali, oggi tanto in auge sia nel pubblico che nel privato, che non prevedono nessun tipo di tutela a sostegno della cura dei figli.

Se guardiamo al resto d’Europa, l’inefficacia delle legge appare ancora più evidente: in Germania, per esempio, il padre può dividere con la madre fino a 12 mesi al 67% della retribuzione. In Norvegia i papà possono usufruire, non di un giorno, ma di ben 12 settimane di congedo retribuito al 100%, mentre il Danimarca, Francia e Gran Bretagna di due settimane obbligatorie. E non parliamo della Svezia dove in Parlamento si sta discutendo se i due mesi obbligatori di congedo di paternità, retribuiti all’80% dello stipendio, siano sufficienti e, pertanto, non sia il caso di portarli a tre.

Sento dire spesso che in Italia gli uomini non prendono il congedo di paternità per un fattore culturale, per il motivo, decisamente da mentalità anni Cinquanta, per cui la cura della famiglia, il care, sia un esclusiva della donna: in realtà, come fa notare Alessandro Volta, neonatologo dell’ospedale di Montecchio Emilia e autore del libro Mi è nato un papà. Anche i padri aspettano un figlio, in un’intervista a La Repubblica, la situazione è molto cambiata:

<< Lo osservo anche nel mio ospedale, dove sempre di più incontro papà extracomunitari e perlopiù maghrebini. Pur provenendo da società molto patriarcali, si stanno facendo contagiare dai padri italiani, forse anche perché qui non godono dell’aiuto della loro rete familiare femminile. (…) Quando chiedo agli uomini quando si siano sentiti padri per la prima volta, perlopiù indicano il primo momento in cui hanno preso tra le braccia loro figlio, non quando lo hanno visto o lo hanno sentito piangere>>.

Il problema non sono i papà: se esiste una componente culturale che disincentiva la scelta, per un lavoratore, di prendere un congedo per la nascita o l’accudimento di un figlio, le ragioni sono da ricercarsi nella mentalità maschilista che organizza e gestisce i rapporti di potere e lavoro della nostra società. In un paese in cui le madri fanno più fatica a trovare lavoro e in cui molte neo-mamme sono costrette a lasciare l’impiego per dedicarsi alla cura della famiglia, come è possibile che le aziende siano pronte ad affrontare la figura del padre-lavoratore? Non sarà che il fattore culturale non sia un comodo alibi per non affrontare l’applicazione di un diritto?

Citando ancora Volta, alla domanda “Quale consiglio darebbe alla politica?”, il neonatologo risponde:

<<Serve un congedo di paternità obbligatorio, al 100% dello stipendio per cinque giorni. E poi il primo anno di vita del bambino dovrebbe essere interamente coperto: 6 mesi di congedo per la madre, 6 per il padre, con quest’ultimo che mantiene i 2/3 del reddito. Certo, servono soldi. Ma basterebbe, come al solito, che tutti pagassero le tasse. Con i padri migliori, anche la società diventa migliore.>>


Locandina del film In viaggio con papà

mercoledì 12 settembre 2012

Mom-cession. Maternità, lavoro e precariato.


Bund, spread, btp, default, Standard & Poor’s, Moody, debito sovrano, titoli di stato, Troika, spending review. Come se la situazione di incertezza e precarietà in cui stiamo galleggiando non fosse sufficiente a rendere insicuri i nostri posti di lavoro e, di conseguenza, anche le nostre vite, siamo circondati da pedanti e altisonanti termini economici, oscuri acronimi insolvibili e nomi poco rassicuranti di severe agenzie di rating ammonitrici che - sebbene siano diventati il pane quotidiano di tg e quotidiani - ci aiutano ben poco a fare chiarezza e contribuiscono a rendere il periodo contemporaneo ancor più nebuloso di quello che già non è.

E proprio ora che ero riuscita a capire perché non va bene se sale lo spread e a comprendere l’importanza che un giudizio espresso da Standard & Poor’s può avere sull’andamento dei mercati, il mio “vocabolario della crisi” si arricchisce di una nuova voce: mom-cession. Il nuovo termine, che tradotto in italiano significa “recessione delle mamme”, nasce da uno studio presentato al 107esimo congresso di sociologia del Colorado in cui i due sociologi, Brian Serafini e Michelle Maroto, hanno evidenziato come una mamma abbia il 31% di possibilità in meno, dopo la perdita di un posto di lavoro, di trovare una nuova occupazione e come, a parità di condizioni, il nuovo stipendio di un papà superi mediamente di settemila euro l’anno quello di una mamma.
Mamme che si concentrano troppo sulla famiglia? Mamme che, in fondo, tengono meno alla carriera e a rimettersi in gioco piuttosto che dedicarsi alla cura del focolare? Uno studio del Families and Work Institute indica il contrario: con o senza figli, l’impegno nel lavoro e l’ambizione rimangono gli stessi. A questo punto, la domanda, seppur ovvia, nasce spontanea: non sarà che la recessione delle mamme è il risultato di una non certo nuova discriminazione da parte dei datori di lavoro? Proprio qualche giorno fa un’amica mi ha raccontato che, dopo aver sostenuto un brillante colloquio di lavoro, si è sentita dire di no perché madre di una bimba di tre anni e, come ci si può immaginare, chi ha un figlio è vincolata a degli orari e a degli obblighi familiari che non le permettono di essere totalmente disponibile. Ma che fine a fatto il cosiddetto concetto di “working balance”, il bilanciamento della vita professionale con le esigenze di quella privata?

Su vitadidonna.it leggo che, almeno secondo la ricercatrice dell’Università di Akron, Adrien French, le mamme che sono tornate al lavoro a tempo pieno, dopo aver avuto un bambino, hanno una forma fisica migliore, sono meno a rischio di cadere in depressione e manifestano una maggiore energia. Secondo la French “il lavoro migliora la salute fisica e mentale delle donne perché migliora l’autostima e permette di raggiungere degli obiettivi, di mantenere un controllo sulla propria vita e di sentirsi autonome”. Ovviamente, in termini di salute psico-fisica, le mamme occupate sono quelle che stanno meglio. Mentre il rischio di perdere il lavoro o essere costantemente alla ricerca di una nuova occupazione “ha effetti negativi sulla salute soprattutto mentale, ma anche fisica”. Non metto in dubbio la migliore salute mentale di chi ha un lavoro e non deve pensare come arrivare alla fine del mese, ma sul piano fisico non saprei: mai dubitare dell’allenamento di una rampante precaria che saltella dalla mattina alla sera da un colloquio ad un altro con una barretta energetica e due succhi di frutta nella borsa! Se aggiungiamo poi che non esistono ammortizzatori sociali che proteggono le mamme precarie rispetto alla discontinuità che caratterizza il loro percorso professionale, sfido chiunque a raggiungere livelli di resistenza fisica, agilità e concentrazione mentale di chi, lavoratrice atipica e madre, deve destreggiarsi fra contratti di lavoro senza orario, rate di asili nido da pagare e uno stipendio intermittente.

Non voglio di certo svilire la rispettabilità e l’attendibilità di uno studio sulla salute della donna ma mi chiedo se non sarebbe molto più importante, anche per il miglioramento della condizione psico-fisica femminile, dedicarsi alla realizzazione e alla messa in pratica di leggi e buone pratiche che supportino e tutelino la maternità e il lavoro femminile, senza che scegliere di avere un figlio rappresenti un ulteriore handicap alla già alta difficoltà di trovare e mantenere un lavoro.

Nell’attesa che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, con delega alle Pari Opportunità, Elsa Fornero - che tanto tiene alla parità dei licenziamenti nel pubblico e nel privato - inizi a stabilire i presupposti per l’attuazione di misure concrete che garantiscano non solo equità, a vari livelli, nel mondo del lavoro, ma anche nella scelta di poter avere un figlio, vi propongo di dare un’occhiata al “Programma-obiettivo per l’incremento e laqualificazione della occupazione femminile, per la creazione, lo sviluppo e ilconsolidamento di imprese femminili, per la creazione di progetti integrati direte” per l’anno 2012.

Sara C.

Le mamme ed il precariato


venerdì 10 agosto 2012

Errore di ridondanza ciclico


Mi ricordo, un paio di anni fa, Fausto Bertinotti, ospite del programma televisivo Che tempo che fa, che, intervistato dal conduttore Fabio Fazio, elencava con sussiego – e con tutto l’arsenale da intellettuale dispiegato: dalla sua erre labiodentale, alla giacca di velluto con le toppe sui gomiti – gli incarichi ricoperti dopo essersi dimesso dalla politica istituzionalizzata – o stipendiata, scegliete pure il predicato che preferite – che andavano da docente di diritto, a presidenze di vario genere. Ora, immaginando che il compagno Fausto non possieda  l’altruistica vocazione del volontario, tutte queste funzioni saranno parcellizzate e si cumuleranno col reddito prodotto dal vitalizio che spetta ai politici di lungo – o anche brevissimo – corso, senza contare le indennità che renderanno meno preoccupante la vecchiaia di un presidente della Camera.

La Fornerina, senz’altro Silvia Deaglio mi permetterà l’affettuoso vezzeggiativo, figlia dell’impetuosa Elsa – la immagino madre incostante: frignona mentre impartisce severe punizioni e impassibile mentre sentenzia che i diritti dei figli vadano conquistati – ha due lavori, proprio mentre in Europa si registra il più alto tasso di disoccupazione dell’ultimo decennio: docente all’Università di Torino e responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica, genomica e proteomica umana. Il curriculum e le referenze parlano per lei, se non fosse che l’università è la stessa dove insegnano i genitori e la Human Genetics Foundation è stata creata dalla Compagnia di San Paolo quando Elsa ne era vicepresidente. 
E se non fosse che recentemente il precariato ha investito anche i Normalisti, nonostante il loro curriculum non sia da meno.


Un anno fa L’Espresso pubblicava il caso, davvero tutto italiano, di politici che percepivano indennità da due o più incarichi. Si contano una trentina, abbondante, di sindaci, dodici presidenti di provincia, quattro assessori e cinquantaquattro consiglieri comunali che continuano stare comodi pure sulle poltrone di deputato o senatore. O viceversa.

Il primo esempio ci racconta di un individuo della schiatta sempre più esclusiva, grazie ad Elsa, dei pensionati d’oro che non riesce ad abbandonarsi all’idea di lasciare ai giovani maggiore spazio magari limitandosi, in disparte, a concretizzare il proverbio dar consigli è proprietà dei vecchi, i fatti sono dei giovani. La seconda riesce, col proprio esempio, a contraddire lo zio Mario intorno ai concetti di equità e monotonia. Il terzo capoverso ci parla di una casta tesa ad accumulare piuttosto che amministrare. L’Italia è dunque un paese per vecchi – che oscilla inquietantemente tra baronismo e gerontofilia; vi ricordate la fotografia che ritraeva Monti ed il primo ministro finlandese? -, per raccomandati e nel quale la distribuzione della ricchezza è profondamente squilibrata


Monti e suo nipote? No, è un collega



Eppure, parafrasando le parole di Shylock  ne Il mercante di Venezia di Shakespeare verrebbe da chiedersi se tutti gli uomini siano eguali o se solo ad alcuni sia dato sacrificarsi maturando pensioni bassissime e rendendo più competitiva la nazione, agli occhi degli investitori, con il precariato sempiterno, per risolvere questo momento di crisi.


Francesco C.

Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?



giovedì 19 luglio 2012

Ma quando ti decidi a fare un figliolo?

Ma quante volte vi siete sentiti porgere la fastidiosa e sempre inopportuna domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”.

L’ultima volta mi è capitata qualche giorno fa sull’autobus mentre tornavo dal lavoro: una gentile anziana signora, con cui non ho una confidenza tale da esporle i progetti per il mio precario futuro, seduta sul seggiolino dietro il mio, mossa non so da qualche spinta di malsana e sgradita curiosità, assale il timpano del mio orecchio con la fastidiosa domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”
Ed ecco che sento tutti gli occhi dei passeggeri, fino ad allora mollemente abbandonati al traballante incedere dell’autobus, rivolti verso di me con sguardo interrogativo. Io balbetto qualcosa sulla crisi, sul mio lavoro, mi giustifico ben sapendo che non sono assolutamente tenuta a dare alcuna spiegazione e vado nel panico. E così la gentile anziana signora mi interrompe: “Voi giovani non siete mai contenti, vi manca sempre qualcosa e avete troppe pretese”. Fortuna, o sfortuna, che sono una persona educata, non mi piace essere offensiva e sono pacifista, eppure in quel momento avevo una voglia incontenibile di sbattere il libro che avevo in mano sul naso impiccione della gentile anziana signora, di accompagnare il gesto con uno sproloquio di aggettivi sprezzanti e di mandare tutti gli altri passeggeri a quel paese. E fortuna che ero avvolta dalle sorridenti e magiche pagine di Dona Flor e i suoi mariti e che ho preferito ignorare tutti e dedicarmi alle vicende esoteriche di Flor e Vadinho.

Ecco quello che avrei voluto dire all’anziana gentile signora: è vero, oggi noi giovani non siamo mai contenti perché non possiamo più esserlo di uno Stato che chiede sempre maggiori sacrifici e offre sempre meno. Ci manca sempre qualcosa perché ci manca il lavoro, i mezzi di sostentamento per appropriarsi della propria indipendenza e del proprio futuro  e, ormai, ci vengono letteralmente negati (non ci possiamo certo dimenticare dell’infelice frase dell’attuale Ministro del Lavoro Elsa Fornero “Il lavoro non è un diritto”) anche i diritti fondamentali della nostra Costituzione. E se volere un lavoro fisso e un contratto che tuteli la maternità, voler poter scegliere di trascorrere con i propri figli almeno i loro primi mesi di vita e scegliere per loro quella che si ritiene sia l’educazione più opportuna è chiedere troppo, allora, è vero, i giovani hanno tantissime pretese e, almeno per quanto mi riguarda, non sono intenzionata a soprassedere nemmeno una.

La sociologa Chiara Saraceno, in un’intervista rilasciata a l’Unità, analizzando il rapporto Istat 2011 sulla povertà in Italia afferma: “La famiglia, grande ammortizzatore sociale nel nostro Paese, non ce la fa più a reggere il peso, i redditi modesti diventano sempre più vulnerabili e a vederla in prospettiva la situazione non sta affatto migliorando”. E continua dicendo che con il lavoro che va sempre diminuendo, per i giovani, è sempre più difficile riuscire ad essere indipendenti e a lasciare la casa dei genitori, mentre, con i servizi che vanno sempre più riducendosi, le donne sono sempre più costrette a rimanere a casa per dedicarsi al lavoro di cura. Alla domanda: “Una situazione sociale che si fa insostenibile: come arginarla?”, Saraceno risponde di essere molto perplessa quando tutta la spesa sociale viene considerata improduttiva e crede che anche l’istruzione e i servizi, intesi come infrastrutture sociali, dovrebbero essere considerati nel capitolo investimenti.

Vorrei che i nostri genitori e i nostri nonni non dicessero che i giovani “non fanno più figli”, parlando con l’aria di chi ha avuto il coraggio di fare un passo importante e responsabile a chi, impavido e egoista, preferisce pensare solo al proprio benessere. Oggi i giovani, anche quelli che magari un figlio lo vorrebbero, sono stati costretti a scegliere, responsabilmente, di non aver figli perché, prima, devono riconquistare quei diritti e garantirsi quei servizi senza cui è impensabile pensare di costruirsi una vita e una famiglia.



Sara C.


 
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