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sabato 27 luglio 2013

La ricetta giusta per la carriera. Ovvero, come disgustare un precario!

Anche questa volta devo deludervi poiché - come si potrebbe erroneamente dedurre dal titolo - non si tratta di uno sfizioso post culinario e,  nonostante gli sforzi, non sono ancora riuscita ad individuare quel mix di ingredienti, misti a talento e fortuna, che può farci uscire dal tunnel del precariato con tanto di scattante avanzamento di carriera!

La ricetta giusta per la carriera” è un articolo, rimanendo nell’ambito del lessico alimentare, per me alquanto nauseante, del settimanale femminile D de La Repubblica che, suggerisce ai giovani di iscriversi ad una scuola di cucina professionale per prepararsi alle professioni dell’altra cucina. Anche se sono convinta che ben poche persone decidano di intraprendere una scelta di studi e di vita come conseguenza di un articolo letto su una rivista, credo che sia un po’ ipocrita e inverosimile scrivere cose del tipo “puntare su una scuola (n.d.r. di cucina professionale) accreditata è un buon investimento anti-crisi”. Non voglio certamente mettere in dubbio le percentuali di assunzione di chi esce da una scuola di alta cucina, vorrei solo puntualizzare che “quei 15 mila euro per 11 mesi di corso (la tariffa standard per un scuola culinaria)” non sono un investimento sul futuro dei figli che molti genitori, soprattutto nell’Italia di oggi, potranno permettersi con molta facilità.

Dal curriculum vitae di una delle due chef citate nell’articolo,  Cristina Bowerman, deduco che non si tratta proprio della figlia diligente e talentuosa di un pizzaiolo di periferia: nata a Cerignola (FO), dopo la laurea in Giurisprudenza continua gli studi forensi presso l'Università di San Francisco in California (USA), dove ottiene il suo primo lavoro in cucina, in un noto breakfast place chiamato Higher Grounds. Negli anni successivi continua a coltivare la passione culinaria e, una volta trasferita ad Austin (Texas) , fonda la piccola compagnia The Two Skinny Ladies e cucina a domicilio. Maturata la decisione di diventare una professionista della cucina, si laurea in Arti Culinarie nel 2002 presso l'Università di Austin con il programma della famosa scuola parigina Cordon Bleu. Nel 2004, dopo svariate esperienze di rilievo e non negli Stati Uniti, risalenti anche al periodo del corso di laurea, tra cui spicca quella per il Driskill Grill, decide di ritornare in Italia per un'esperienza professionale, scegliendo il Convivio Troiani, noto stellato romano.

Non discuto l’alta professionalità e la competenza della Bowerman ma, onestamente, il suo percorso di formazione non è proprio alla portata di tutti!  Bowerman afferma “superate lo svantaggio biologico puntando dritte all’alta cucina. Lì si pensa di più e di fatica di meno rispetto ad una trattoria”. Cavolo … ecco dove ho sbagliato! Ed io che quando frequentavo l’università trascorrevo le serate dei fine settimana a fare la cameriera in un alquanto dozzinale ristorante-pizzeria di provincia, percorrendo chilometri tra tavoli-sala-cucina-forno a legna e facendo l'equilibrista tra i tavoli trasportando pizze dalla temperatura di 350 gradi Celsius! Il più impegnativo esercizio intellettuale era tenere in mente i dodici diversi tipi di caffè che ti avevano ordinato al tavolo da dieci: basso, macchiato freddo, macchiato caldo, lungo, al vetro, d'orzo, decaffeinato, shakerato, decaffeinato alla nocciola, mocaccino, cappuccino, schiumato, americano, macchiato in tazza grande, corretto al sassolino, alla sambuca, alla grappa morbida o alla grappa secca! Non ho mai capito perché un ristorante-pizzeria con una scelta di appena cinque primi e quindici pizze, deve servire il caffè il cinquecento modi diversi: forse è una proposta della Bowerman per aguzzare l’ingegno del povero cameriere che, sul concludersi della serata, non vede l'ora di sbattere fuori i clienti e sparecchiare i tavoli!

L’articolo è accompagnato da un simpatico trafiletto “Centomila futuri mestieri”, che elenca alcune nuove opportunità di lavoro censite da Coldiretti: dall'agrigelataio al sommelier della frutta, dal birraio a chilometri zero, all'assaggiatore di miele, dal personal trainer dell'orto al food blogger. Mi chiedo se qualcuno avrà mai pensato al coach motivazionale per galline? Mi ci vedrei veramente bene: look un po’ vintage alla Maria Rosa del lievito Bertolini, salopette blu e foulard a fiori in testa, che, con cestino di vimini sotto braccio,  saltello nel pollaio e canticchio filastrocche per esortare le mie gallinelle a farmi tanti ovetti: “forza gallinelle, fatemi tanti bei ovetti che scaliamo le classifiche di Forbes!”. Vedo già i titoli sui giornali: “Precaria della Pubblica Amministrazione decide di cambiare vita e diventa milionaria curando l’autostima di un pollaio di galline sull’orlo della crisi di nervi e inevitabilmente destinate al brodo!”.

Alla fine, dopo tanti anni di co.co.co., non dovrei avere troppa difficoltà!


 La gallina di  Jules Renard

A zampe unite, salta dal pollaio, appena le si apre la porta. È una gallina qualunque, di abiti modesti, e non fa, no, uova d'oro.
Ubriaca di luce; muove qualche passo incerto nel cortile.
Vede, per primo, il mucchietto di cenere dove ha il vezzo di ruzzare ogni mattina.
Vi si arrotola, vi si affonda e, sbattendo forte le ali, gonfia le piume, si scuote di dosso le pulci della notte. Va a bere nella scodella sbreccata riempita dall'ultimo acquazzone.
Non beve che acqua.
Beve a sorsetti, a collo teso, equilibrata sull'orlo del piatto.
Poi, è il momento della cerca del cibo, qua è la. Tutto è suo: le erbette sottili, gli insetti, tutti i semi dispersi.
Becca, becca, infaticabilmente. Solo, si arresta tratto tratto.
Ben ritta, sotto il caschetto frigio,vivo l'occhio, il gozzo in fuori; ascolta con un orecchio e con l'altro.
No, non c'è nulla di nuovo: e si rimette alla cerca.
Solleva alte le zampe rigide, come chi ha la gotta, divarica le dita e le posa, cauta, senza rumore.

Si direbbe che cammina scalza.




lunedì 15 luglio 2013

La riconciliazione di un precario: una proroga e una frittata

Questa mattina, in ufficio, mi è stata recapitata dal custode una raccomandata a mano personale: il mio contratto, che sarebbe dovuto scadere fra una decina di giorni, è stato prorogato fino al 31 dicembre. Niente di eccezionale, una proroga di poco più di cinque mesi, che però ha contribuito notevolmente a calmare quello strisciante senso di inquietudine che, inevitabilmente, ti coglie quando incominci a riflettere sul fatto che il tuo contratto terminerà prima degli yogurt senza conservanti che hai nel frigo!
“In relazione al rapporto di lavoro istaurato con la Sig.ra Vispa Teresa, assunta a tempo determinato a decorrere dal 21/01/2013 fino al 21/07/2013, informo che, a seguito del permanere delle esigenze che ne hanno reso necessario il reclutamento, tale rapporto di lavoro è prorogato fino al 31/12/2013”.
Tutto qui: ma queste poche parole, frutto probabilmente di un meccanico e svagato copia incolla, nella mia testa suonano più rilassanti ed emozionanti del notturno in do diesis minore di Chopin! No, non abbiate paura, non sto manifestando i primi fastidiosi sintomi della sindrome di Pollyanna, è solo che stasera è una bellissima serata di luglio, ho in frigo una fresca bottiglia di vino bianco che intendo gustare in tranquillità ed ho bisogno di riconciliarmi un po’ con me stessa. La questione cruciale della scadenza del contratto non è stata risolta, è stato piuttosto “prorogata”, ma stasera ho deciso di prendere una giornata libera e di prorogare anche i problemi e le ansie! Dove eravamo rimasti? Una bellissima giornata di luglio, una bottiglia di vino bianco … e con il vino? Una frittatina veloce e profumata. Devo rassicurarvi ancora una volta: no ho intenzione di accattivarmi la simpatia dei miei affezionati e numerosi (?) lettori cavalcando l’onda di successo dei blog di ricette … per cui, fra l’altro, non avrei neppure le competenza! Lo ripeto questo non è un post culinario ma un esercizio di riconciliazione con me stessa! La ricetta è di una semplicità disarmante, praticamente intuitiva, e gli ingredienti sono il minimo indispensabile: quattro uova, parmigiano, sale, un filo di olio di oliva e qualche aroma del mio “orto” (n.d.r. trattasi di un’aiuola a semicerchio di, più o meno, un metro di diametro!). Non sono capace di cuocerla nella padella e così risolvo alla mia inettitudine ai fornelli cucinandola al forno: come ho già detto, stasera niente complicazioni e, se si può, niente ustioni con l’olio bollente! Accendo il forno a 200°. Prendo un zuppiera di vetro e, una dopo l’altra, spacco le quattro uova (ricetta per due!)… mi piace farlo lentamente, rompendo il guscio con un sordo schiocco lungo il bordo della zuppiera e facendolo scivolare dentro con un tuffo calmo e solenne. Mi piace la sensazione fresca e appiccicosa dell’albume sulle dita e il giallo perfetto e luminoso dei tuorli che rimangono interi. Poi, tutto rigorosamente ad occhio e secondo il gusto personale, verso il sale, il parmigiano grattugiato e mescolo tutto insieme, dall’alto verso il basso, senza esagerare … quanto basta per far amalgamare le chiare ai rossi. Prendo una teglia antiaderente di forma circolare e, lentamente, ci faccio scivolare tutto il composto: piano piano, a rallentatore, per godere del contrasto tra la cremosità gialla delle uova che, morbidosamente, si allarga sul fondo nero della teglia. 

Il più è fatto: non resta che mettere la teglia nel forno, ormai caldo, e attendere poco più di un quarto d’ora! Mentre la frittata cuoce, il forno emana un profumino ghiotto e accogliente che mi dà buonumore e serenità . Divago pensando ad una bellissima scena di uno dei mie film preferiti, Una giornata particolare di Ettore Scola , dove Marcello Mastroianni e Sofia Loren, vivono un tragico e tenero momento di empatia fisica ed emotiva che ha inizio proprio con la condivisione di una frittata preparata da Mastroianni: 





 Ed ecco che finalmente la mia frittata è pronta, il sole è tramontato e la tavola apparecchiata per due: una perfetta serata tranquilla per riconciliarsi con se stessi. Domani pensiamo a tutto il resto, ma stasera niente deve turbare questa bellissima quiete. Stasera deve andare così e, tanto per rimanere sulla linea della citazione cinematografica: domani è un altro giorno!





giovedì 11 luglio 2013

Aspettare stanca!

Lavorare stanca era il titolo di una raccolta di poesia di Cesare Pavese. Italo Calvino parlando del poeta lo definì "un ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell'amore e delle famiglie, senza armi nel mondo della lotte cruente e dei doveri civili": in un certo senso, un precario di altri tempi! Con la differenza che, per il precario, stancarsi lavorando, più che un sentimento di malessere fisico e psicologico, è un'aspirazione!
Ma se non si stancano a lavorare, i precari sono stanchi di molte altre cose: sono stanchi di doverlo cercare un lavoro, di dover firmare vergognosi contratti che prevedono molti doveri e pochi diritti, di dover sempre dimostrare di essere indispensabili e all'altezza del compito da svolgere. Sono stanchi di doversi sempre organizzare in previsione dell’approssimarsi di un periodo di disoccupazione, di doversi inventare in una nuova figura professionale e di dover organizzare il resto della propria vita secondo i nuovi e provvisori orari di lavoro. Sono stanchi di aggiornare il proprio curriculum vitae, di affrontare inutili colloqui al centro per l’impiego o surreali appuntamenti con gli impiegati allucinati delle agenzie interinali che, fra l’altro, sono quasi più precari dei lavoratori che cercano di collocare! I precari sono stanchi di sentire che la percentuale di disoccupazione ha raggiunto livelli mai visti e di leggere delle proposte del Governo per il rilancio dell’occupazione che qualche mese dopo si riveleranno del tutto inefficaci.
Io, per esempio, sono stanca di studiare per un concorso che avrei dovuto fare ieri ma che, pare a causa di un alto numero di domande di partecipazione, è stato rimandato, una settimana prima del suo svolgimento, al 10 ottobre! Anche se ora godo dei benefici di un sospirato fine settimana trascorso in spiaggia, anziché a sudare sui libri, l’idea di dover passare ancora dei mesi con il pensiero di dover affrontare l’ennesimo concorso pubblico, mi fa calare addosso un opprimente senso di spossatezza. Sono bloccata in attesa di una data che mi spaventa ma che non vedo l’ora che arrivi! Ecco quello che mi stanca di più: non è lavorare o studiare, è aspettare!
I precari sono stanchi di aspettare la data di concorso, l’inizio o la fine di un contratto, la pubblicazione di un bando, la decisione di una commissione sull’esito di una selezione, il momento giusto per comprarsi una casa, per fare un figlio, per comprare l’auto nuova con una finanziamento. 

I precari sono lavoratori/cittadini/adulti in stand-by: circuiti elettrici pronti a partire, stanchi di aspettare e ansiosi di riprendere in mano la propria vitaMa da precaria, con colleghi e amici precari, vi assicuro che per un precario che si strugge nell’attesa, ce sono tanti che non si rassegnano e che, nonostante tutto, senza illusioni o false speranze, pur non avendo ben chiaro dove e come lavoreranno domani, sanno bene quello che vogliono oggi e non hanno voglia di rinunciarci. E questa non è una minaccia ma una promessa: la premessa che ce la metteremo tutta e che non staremo ad aspettare Godot!




sabato 18 maggio 2013

Il manuale del giovane precario – Consigli (più o meni seri) e tre canzoni per affrontare un concorso

Avvertenza. Prima di leggere il post clicca qui: LINK

Uno dei “passatempi” più impegnativi per chi è disoccupato o per chi non ha un lavoro a tempo determinato, è sicuramente la consultazione svogliata di gazzette, albi e siti che pubblica i bandi di concorso annunciati dagli anti pubblici e qualche volta può capitare di imbattersi in qualche bando che, con lo scetticismo del caso, ci convince ad avere un po’ di fiducia in noi stessi e a partecipare.

1. Se non siete tra i fortunati per cui i requisiti del bando coincidono in maniera impertinente con il proprio curriculum vitae, accertatevi di essere in possesso dei requisiti di partecipazione, leggendo con attenzione quali sono quelli fondamentali e i titoli che invece vi daranno punteggio.

2. Leggere con attenzione le indicazioni per la redazione della domanda e i termini di presentazione, facendo particolare attenzione alla data di scadenza e alle modalità di invio: in molti casi non fa fede il timbro postale e rischiate che la vostra domanda di partecipazione arrivi in ritardo! Attenzione anche alla dicitura da indicare sulla busta: può essere richiesto di indicare l’oggetto del bando e il numero di protocollo.

3. Leggere sul bando il numero e la tipologia delle prove di valutazione e le principali materie su cui sarete valutati. Evitando di immergersi a capofitto in farraginosi manuali di contabilità, diritto, informatica, o di qualsiasi cosa tratti il concorso, consultate con attenzione il sito, i regolamenti e le attività dell’ente che bandisce il concorso: molto spesso i concorsi trattano argomenti che riguardano strettamente la propria regolamentazione interna e le proprie attività istituzionali.

4. Fatevi un calendario in cui indicare i giorni da dedicare allo studio, ma anche i momenti per fare delle pause: magari non lo seguirete con rigidità, ma vi aiuterà a procedere con ordine e a non andare fuori di testa e a dedicarvi dei momenti di svago senza sentirvi inconcludenti. Magari agitandovi in uno sballo spudoratamente senza senso, ma di immediato effetto, con 99 Luftballons:


5. Controllare la dispensa e verificate che abbondi di golosità che vi piacciono: lo so che non è un consiglio molto salutare, ma in certi periodi la gola va appagata. Ecco le mia scorte: cerali di riso soffiato al cioccolato, barattolini di gelato, nutella. E perché no, anche qualche buona bottiglia di vino rosso, da consumare, ovviamente, non tanto per allietare i pomeriggi di studio, ma, piuttosto, per farvi dormire tranquilli senza l’incubo di essere di fronte alla commissione in pigiama e ciabatte!

6. Fate una lista di tutto c’ho che farete quando tutte le prove del concorso saranno finite e a cui ora, spinti dal un incontrollato senso di responsabilità, non riuscite a fare: a me aiuta ad andare oltre e a non pensare che sto trascorrendo giugno a studiare un regolamento sull’amministrazione, la finanza e la contabilità dell’Università di Pisa. Attenzione, non devono essere cose del tipo: sbrinare il freezer, togliere la muffa dall’angolo della cucina o controllare le bollette. Ma piuttosto: andare in bicicletta fino a Lucca e fare la siesta sulle mura; farmi un gelato nocciola, fiordilatte e cioccolato fondente alla nuova gelateria senza glutine; riguardare tutti i miei film preferiti della nouvelle vague e dormire fino a che non impresso sul materasso la forma del mio corpo!

Domani si incomincia a studiare, ma ora, prendetevela comoda:






domenica 28 aprile 2013

Audentes fortuna iuvat


Sono fortunata. E’ un aggettivo che, in questi ultimi tempi, mi sono sentita attribuire spesso. Sono fortunata perché , sebbene precaria, da qualche anno ho un lavoro. Sono fortunata perché, sebbene precaria, la mia banca mi ha concesso un mutuo con cui ho potuto acquistare un terratetto con un resede e un’entrata indipendente. Sono fortunata perché, sebbene ancora precaria, arrivo a fine mese senza il fiato dei creditori sul collo e mi posso permettere anche qualche vizio. Sono fortunata perché sono sana e le persone a cui voglio bene godono di piena salute. E potrei andare avanti ancora per molto tempo: sono fortunata perché nessun meteorite ha colpito il paese dove vivo. Sono fortunata perché mi piace il latte e, dato che non soffro di colite, ne posso bere quanto mi pare. Sono fortunata perché non ho la cellulite e non soffro di ritenzione idrica. Sono fortunata in amore. Sono fortunata perché non mi chiamo Candy Candy e non sono cresciuta in un orfanotrofio che, come se non bastasse, si chiama “Casa di Pony”.

E quando mi dicono che sono fortunata che faccio? Di solito abbozzo un sorrisetto, annuisco senza fiatare e cambio discorso perché sono stanca di spiegare quanto sia inopportuno, superficiale e sciocco parlare di fortuna e quanto, definirmi tale, dimostri una totale mancanza di rispetto verso quello che faccio, di etica del lavoro e di ignoranza rispetto ai veri problemi che ci impediscono di superare questo momento di stallo.
Avere e trovare un lavoro, anche in un periodo critico come questo, non deve essere mai e poi mai considerato una fortuna. Una fortuna è vincere al gratta e vinci, il lavoro invece è un diritto, è libertà, è la linfa vitale che alimenta il progresso culturale, civile e spirituale degli individui e, di conseguenza, della società. Pensare che avere un lavoro sia una fortuna è un’idea distorta e pericolosa che rappresenta una resa all’irrazionalità, al disimpegno, alla mollezza e che permette, a chi dovrebbe impegnarsi ad elaborare seri e proficui piani di assunzione, qualificazione e valorizzazione del personale, di approfittare della “crisi” abusando delle più svariate forme contrattuali per assumere in maniera arbitraria, sfruttare il personale che non è tutelato da forme contrattuali solide e a tempo indeterminato e far dilagare sempre di più il fenomeno del lavoro precario.

E poi, chi dice che sono fortunata, sa cosa ho fatto per avere questo invidiabile lavoro a tempo determinato? Il liceo scientifico, l’università , il master in comunicazione pubblica e politica, i lavoretti per arrotondare quando ero una studentessa e quelli a cui mi sono dedicata con serietà e impegno e da cui mi sarei aspettata qualcosa di più che un “arrivederci e grazie”. I contratti co.co.co. da 700 euro al mese e da nove ore di lavoro il giorno, senza ferie, malattia e non parliamo della maternità. I tirocini dove il massimo di stipendio che ti potevi aspettare era un contenuto rimborso spese. E dormire cinque ore a notte per partecipare all’ennesimo concorso, ottimizzando al massimo i tempi dedicati a tutte le altre attività della vita quotidiana, non tanto per vincerlo ma per entrare in graduatoria.

Vorrei dire che la prossima volta che qualcuno mi dirà che sono fortunata avrà di che pentirsene ma considerato che non voglio accanirmi con chi avrà la malaugurata sorte di scegliere un termine per me parecchio sfortunato, risponderò con le parole di un sommo poeta: la fortuna aiuta gli audaci.






domenica 21 aprile 2013

Il manuale del giovane precario – Riflessioni in pullman con l’FLC GCIL

Lo scorso 10 aprile ho partecipato al presidio organizzato dall’FLC CGIL di fronte al Miur. Tra gli incontri, gli interventi, le discussioni e i confronti a cui ho avuto modo di assistere e di prendere parte, durante il lungo tragitto in pullman Pisa/Roma e poi Roma/Pisa, ho avuto anche la preziosa occasione di rubare qualche oretta per sonnecchiare e pensare a ruota libera. Considerato il tema della giornata (il precariato, il lavoro, il futuro) è stato inevitabile fare un paragone fra la mia situazione lavorativa di un anno fa e quella odierna.
L’aprile scorso lavoravo in un dipartimento dell’Università di Pisa, avevo un contratto a tempo determinato in scadenza il 30 settembre e vivevo nell’amaramente disattesa speranza che, dopo più di sei anni di serio e valido impegno nel lavoro che svolgevo, il direttore ritenesse un dovere morale farmi un nuovo contratto.

Oggi, grazie alla mia tenacia e alla graduatoria di un concorso di due anni fa, ho un contratto a tempo determinato agli uffici centrali dell’Università di Pisa, continuo a lavorare seriamente e impegnandomi al massimo ma con un’enorme differenza: ho la consapevolezza che il mio impegno non implica obbligatoriamente un rinnovo del contratto, che gli elogi dei dirigenti, per quanto carichi di superlativi e termini appaganti, hanno la stessa consistenza, le serietà e la stucchevolezza dello zucchero filato alle fiere di paese e che per tanti colleghi vale il vecchio proverbio “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Ma , soprattutto, pensando all’ingenua fiducia che avevo, alle delusione e al senso di umiliazioni che ho subito, che mi stordivano e mi facevano venire le guance rosse come se fossero stati sonori schiaffi a mano aperta, ai sorrisetti e alle pantomime di circostanza in cui mi si raccontava senza pudore quanto stessero facendo il possibile per farmi riavere il mio posto di lavoro, rifletto su quanto tutte queste angherie abbiano rappresentato un’importante, come direbbe Cliff Robinson alla figlia Vanessa sulla celeberrima scalinata della loro casa di New York, lezione di vita.

Con i piedi ben saldi a terra e arricchita della mia nuova consapevolezza, ho imparato che devo avere più fiducia in me stessa e nelle mie capacità e che chi decide di farti un contratto (ovviamente per i non fortunati che non possono contare su parentele, raccomandazioni o gonne di tailleur conservate nel freezer!) non lo fa per generosità ma perché le tua conoscenze e la tue capacità hanno un valore. Che per tanti colleghi che non incontrerai più, ci saranno altre persone che diventeranno importanti e che, per quello che potranno, ti sosterranno e ti staranno vicine. Sdolcinata? Forse! Ma in certi casi sapere che c’è qualcuno che riconosce quanto vali e che comprende l’ingiustizia che hai subito è qualcosa di inestimabile e corroborante! Ed anche se ora mi sento un po’ come Beatrix Kiddo in procinto di partire verso la dimora del leggendario Hattori Hanzo per mettere in pratica un sanguinario progetto di vendetta, assopita sul pullman in ritorno da Roma e circondata da precari che, come me, tra picchi di entusiasmo e momenti di grande disorientamento, cercano di far valere il proprio diritto ad avere un lavoro e di essere trattati con rispetto, sono soddisfatta di essere delegata per il personale precario dell’Università di Pisa e di aver partecipato a questa giornata: spero fortemente che sia un punto di partenza per una nuova fase di crescita e conquiste, per me e per le persone che non si danno per vinte.

Ko Ni Chi Wa.

Una beatrix Kiddo precaria




Precari della Conoscenza - Primi risultati


Presidio a Roma dei precari della conoscenza del 10 aprile: primi risultati per i precari.

Il Ministro Profumo riconosce la necessità di un aumento del finanziamento di tutti i comparti della conoscenza, ma restano aperte ancora molte incognite.

Leggi la notizia sul sito dell’FLC CGIL.



Presidio al Miur dei precari della conoscenza

10 aprile: l’FLC CGIL organizza un presidio a Roma dei precari della conoscenza. Chiesto un incontro al Ministro Profumo.

Leggi il comunicato stampa di Domenico Pantaleo, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza, sul sito dell’FLC CGIL.



Precariato - Presidio al Miur

sabato 23 febbraio 2013

Elezioni politiche 2013. Le scelte di un precario.


Lo ammetto. Manca meno di una settimana alle elezioni politiche ed io non ho la più pallida idea di cosa votare.  Non voglio declinare la solita solfa dell’italiano deluso dalla politica, che non ha più fiducia nelle istituzioni e nel sistema dei partiti. La mia indecisione è il risultato di una quanto mai più che consapevole pigrizia mentale, di un’ insofferenza o,  direi quasi, nausea, verso i cliché e i teatrini televisivi pre-elettorali ma anche di un atto di buon gusto, dato il mio non voler assistere ad una delle più brutte campagne elettorali  che si siano viste negli ultimi vent’anni: un chiassoso battibecco di insulti, allusioni sessuali e scene da soap opera capaci di inghiottire gli inconsistenti programmi elettorali.

Nonostante tutto,  dal mio stomaco, una vocina petulante mi ripete insistentemente che votare è un diritto e un dovere, che gli ignavi vanno all’inferno e che esprimere la propria posizione è una responsabilità civile e quindi decido, con un intervento last minute, che sceglierò a chi dare il mio voto leggendo direttamente i programmi elettorali da un preciso punto di vista: quello del  precario che, pur consapevole della tragica situazione del mondo del lavoro, spera in qualche vincente strategia di governo o che in uno strano avvicendarsi di fortunati eventi,  queste elezioni portino un cambiamento positivo.

E la mia full immersion ha inizio.

Da Italia. Bene comune al Popolo delle Libertà. Dal Movimento 5 Stelle a Scelta civica. Monti per l’Italia. Da Rivoluzione civile a Fare per fermare il declino.

Leggo frasi nobili e profonde : “ La nostra visione assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore da rimettere al centro della democrazia, in Italia e in Europa”. Obiettivi ambiziosi e vitali: “Un sistema di welfare che dia sicurezza a tutti, indipendentemente dal tipo di lavoro”, “Vogliamo creare occupazione attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, politiche industriali che innovino l’apparato produttivo e la riconversione ecologica dell’economia”.  Promesse di risoluzione di gravi problemi civili e sociali: “Risoluzione della questione esodati”, “Vogliamo introdurre un reddito minimo per le disoccupate e i disoccupati”. Termini altisonanti che esprimono concetti di inestimabile valore: democrazia, dignità, welfare, sicurezza, flessibilità, occupazione.

Parole, parole, parole che, forse, se pronunciassi a voce alta e scandita, tenendo in mano una bacchetta e indossando un cappello a punta potrebbero anche far accadere qualcosa ma, concretamente, la ferita della Riforma Fornero, approvata alla Camera con 393 voti favorevoli ed ora rinnegata in qualche modo anche dai partiti che l’avevano votata in Parlamento è ancora aperta. Parole, parole, parole che propongono soluzioni vincenti ma che non chiariscono le cifre, i dati e che non descrivono  quali saranno le risorse che potranno permettere di attuare soluzioni  costruttive e risolutive in materia di occupazione, welfare e pensioni.

Beata ignoranza… Ma perché invece di intristirmi con i programmi politici, di farmi invadere dalla rabbia e dall’amarezza di essere incapace di dare un voto che, quanto meno, ritenga importante e utile, non mi sono rilassata aggiornandomi  sui nuovi tagli di capelli per la prossima primavera-estate?

Vabbè, non voglio darmi per vinta e, da qui a domenica, leggendo e rileggendo, magari ad alta voce, i programmi elettorali vedrò se avranno il prodigioso potere di darmi il coraggio necessario a fare una scelta.

Speriamo di non trasformare qualcuno in ranocchio!







domenica 30 dicembre 2012

Il manuale del giovane precario - Buoni propositi per l’anno che verrà


Si avvicina la fine dell’anno e svanita la minaccia della fine del mondo che, se non altro, avrebbe portato via tutti i problemi e i pensieri che ci tengono svegli, è tempo di fare un po’ di ordine nelle nostre vite di lavoratori precari e di disoccupati alla costante ricerca di qualcosa da fare.

Vorrei che l’elenco dei buoni propositi per il 2013 consistesse in tre semplici, chiari e concisi punti:
1. impegnarmi a trovare un lavoro con un contratto a tempo indeterminato
2. non essere pigra e non perdere tempo
3. non perdermi d’animo ed evitare gli sbalzi d’umore.

D’altra parte, da tre mesi a questa parte, ovvero dalla scadenza del mio ultimo contratto a tempo determinato, ho imparato tre lezioni semplici, chiare e concise:
1. seppur seguendo alla lettera i consigli che aiutano a trovare lavoro, attualmente, mi sento di poter dire che è praticamente impossibile trovare un impiego, dignitoso o meno,  con un contratto a tempo indeterminato.
2. detesto la pigrizia e ancora di più perdere tempo. Ma la cosiddetta “crisi” non tiene conto  dell’impegno, della perseveranza e della determinazione delle persone che hanno voglia di combinare qualcosa di costruttivo per sé e per gli altri e, inesorabilmente, va avanti arricchendo la disonestà, l’egoismo e la corruzione che l’hanno generata e chi non partecipa a questo festino tra sciacalli si ritrova immobilizzato e impotente.
3. non è facile non perdersi d’animo, arrabbiarsi ed evitare gli sbalzi d’umore ma se c’è qualcosa di utile ed importante in cui impegnarsi è proprio mantenere il controllo di se stessi, essere lucidi e non crogiolarsi in un fin troppo facile vittimismo. Anche se le previsioni per una ripresa economica e un aumento dell’occupazione per il 2013 sono disastrose, darsi per vinti è il peggior male possibile. Non voglio dare lezioni di vita a nessuno: non ho né le capacità né il ruolo.  Piuttosto rifletto a voce alta, riorganizzo i miei pensieri e faccio i miei piani per il futuro.  Se ormai sono consapevole che mettercela tutta non servirà a trovare un lavoro, chiudersi in se stessi e dirsi che impegnarsi non serve a niente è solo un comportamento che ci fa del male e che aiuta chi agisce in maniera disonesta a raggiungere più facilmente i propri interessi.
Chi oggi è senza lavoro e vive in una condizione di precariato lavorativo e, di conseguenza, sociale non è un incapace, ma rappresenta, suo malgrado, il risultato di scelte politiche ed economiche rivolte solo al tornaconto personale o di pochi privilegiati, di un sistema clientelare dove sussiste ancora la logica mafiosa della famiglia e dove le strategie di sviluppo sono un mero scambio di favori. E per superare tutto questo non bisogna isolarsi, considerarsi perdenti e pensare di cavarsela con qualche scappatoia: servirebbe solo a peggiorare le cose e a diventare complici. Non bisogna considerarsi vittime ma individui responsabili e dotati di capacità da far valere per la propria crescita personale e da condividere con gli altri, è così che possiamo cambiare le cose. Mi rendo conto che possono sembrare parole utopiche e fuori luogo ma la situazione è talmente caduta in basso, che per ottenere dei risultati bisogna puntare in alto, essere ambiziosi ed avanzare le proprie pretese.

Per questo motivo, uno dei mie buoni propositi per l’anno che verrà sarò quello di impegnarmi ad essere parte del cambiamento, sia partecipando a nuove iniziative che stanno nascendo (come la campagna Io Voglio Restare), sia imparando a conoscere e collaborare alle attività di sindacati e realtà associative che da tempo si occupano di lavoro e diritti (per esempio la campagna della Cgil Ricostruiamo l'Italia). Il Manuale del giovane precario, senza rinunciare a mettersi in prima linea nella sperimentazione dei consigli, più o meno ortodossi, per cercare un lavoro, diventerà, o almeno si proporrà di farlo, un aiuto per conoscere ed entrare in contatto con chi si impegna, in maniera diretta, per essere artefice di un cambiamento reale.

Consapevole che il cammino sarà lungo e certamente non sarà semplice, ma considerato che ci stiamo avvicinando alla spumeggiante e festaiola serata di capodanno, vi lascio con un classico di S. Silvestro

martedì 6 novembre 2012

Università e Precariato


Emanato il decreto che fissa i criteri e i contingenti per l’assunzione del  personale universitario.

Sul sito del MIUR è stato pubblicato il Decreto Ministeriale 22 ottobre 2012 n. 297  "criteri e contingente assunzionale delle Università statali per l’anno 2012". 

Il Decreto, emanato in applicazione della Legge 240/2010 e delle norme  che si sono succedute nel tempo in materia di assunzioni di personale  universitario, determina il limite delle assunzioni di personale a tempo  indeterminato e di ricercatori a tempo determinato per gli anni 2014, 2015 e 2016. Il Decreto definisce, Ateneo per Ateneo, sulla base disposizioni legislative  fissate dal D.lgs 29 marzo 2012, n. 49 e della cosiddetta spending review, i punti  organico che possono essere utilizzati per l’anno corrente. Un punto organico  corrisponde ad euro 120.151 ed è il costo medio nazionale di un professore di I fascia. Ogni Ateneo statale è autorizzato ad utilizzare i Punti Organico nella misura in  cui si determini una differenza positiva tra la rispettiva attribuzione effettuata  dal decreto e la somma dei Punti Organico eventualmente  già utilizzati nell'anno in corso nel rispetto dei diversi regimi assunzionali  vigenti. Per saperne di più. consultare il sito dell’FLC CGIL a questo indirizzo:  



mercoledì 17 ottobre 2012

Italian Life - Aborto e Precariato

In ogni medical drama che si rispetti arriva sempre la puntata in cui qualche problematica adolescente, per svista o per violenza, rimanga incinta e decida, vuoi perché è troppo giovane, perché si trova in una situazione di indigenza oppure perché ha deciso di ritornare sulla retta via, di dare il figlio in adozione ad un’accogliente, serena e garbata famigliola. Nella maggior parte degli episodi, però, succede che la giovane e sprovveduta madre, al contatto con il tenero pargoletto, decida di sfidare le insidie della vita e scelga di tenere il figlio con sé: a questo punto, a parte qualche secondo di amarezza per i genitori adottivi mancati, tutto si tinge di rosa/celeste, i problemi insormontabili svaniscono e la ragazzina spettinata e imprudente si trasforma in una giovane donna risoluta e sicura di sé. Come si dice: “sono telefilm”, “è solo fiction”.

E' solo fiction, e non ci sono dubbi, perché la situazione, almeno in Italia, è ben diversa. La giornalista Laura Bastianetto, in un articolo pubblicato su Scienza e Salute, racconta il suo viaggio nel reparto per l’interruzione volontaria di gravidanza (Igv) dell’Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma dove ogni giorno si effettuano dieci interventi tra quelli chirurgici e quelli medici (pillola Ru 486).  La Dott.ssa Giovanna Scassellati, responsabile del reparto, alla domanda su chi siano le donne che scelgono di sottoporsi all’interruzione di gravidanza, dichiara:
“Tra il 2010 e i primi 8 mesi del 2012 abbiamo assistito solo 4 minorenni, più di una buona fetta nella fascia d’età tra i 18 e 25 anni, con un picco tra i 26 e i 45. Per il 45% si tratta di ragazze con diploma, il 35% ha la laurea e il restante 20% l’attestato di scuola media”. 


E, durante i colloqui con lo psicologo, alla domanda sui motivi che hanno portato alla decisione di interrompere la gravidanza, le pazienti forniscono sempre risposte riconducibili alla crisi economica : “precarietà lavorativa”, “mancanza di risorse economiche”, “sono disoccupata”, “non posso lasciare il mio lavoro per accudire il bambino”, “mio marito è disoccupato”, “questa gravidanza mette a rischio l’attività lavorativa”, “non sono pronta ad avere un altro figlio”. Si tratta di donne adulte, con relazioni stabili, occupate, con livello di istruzione medio alto che decidono di abortire perché rischiano di perdere il lavoro.

D’altra parte, proprio l’altra settimana, il nostro Premier Mario Monti, durante la visita alla Barilla in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Rubbiamo, si rivolge alla cittadinanza dicendo “Il mondo ci sta guardando per come questa popolazione sta reggendo a questa prova dura e amara, dando prova dell’appartenenza a un Paese che forse si sta rendendo conto che sta cambiando per il meglio. (…) Il popolo italiano sta dando il meglio di sé”.
A questo punto, mi chiedo: ma sto guardando un servizio del telegiornale o un fiction di Raiuno? Oppure: ma Monti conosce veramente la situazione del paese che sta governando o si aggiorna guardando I Cesaroni con Elsa Fornero?
Vabbé, vista la realtà, voglio sprofondare anch’io nella finzione e chiudo lasciandovi con una frase del film American Life:

I bambini resistono. Sono predisposti geneticamente. Sono già fottuti usciti dalla pancia, avranno un cellulare, se la caveranno!





lunedì 1 ottobre 2012

Il manuale del giovane precario - Ops…sono disoccupata!


Ci siamo: dopo una settimana di ferie e due giornate di ore accantonate da recuperare, la data fatidica è arrivata. Oggi è il primo ottobre e sono disoccupata.

Nessuna sensazione particolare o preoccupante: battito regolare, frequenza respiratoria nella norma, nessuno sfogo cutaneo e gastrite sotto controllo. Non sono triste e, almeno per ora, non sono ancora particolarmente angosciata dal pensiero di essere senza un impiego. Direi piuttosto che sono un po’ spaesata: ho a disposizione del tempo da trascorrere facendo quello che mi piace, ma la mia totale incapacità di perdere tempo e la volontà di spenderlo nel miglior modo possibile, fanno si che mi ritrovi senza saper cosa fare. In questo momento la cosa che mi spaventa di più è il pensiero dell’inattività, il perder tempo, il non aver uno scopo.

Per fortuna, ascoltando una trasmissione di Radio Capital, mi viene incontro Elisa di www.monster.it, che mi risveglia dal mio intorpidimento con questa malefica frase “oggi cercarsi un lavoro è un lavoro e richiede una strategia”. Tralasciando il fatto che detesto le frasi di questo tipo e mettendo da parte la mia convinzione, che forse qualcuno potrebbe ritenere alquanto superba, secondo cui una laurea, un master e sei anni di lodevole servizio dovrebbero considerarsi un metodo alquanto plausibile per ottenere un lavoro da mille euro al mese, ho deciso quale sarà il mio obiettivo: elaborare una strategia per cercare, e magari trovare, un nuovo lavoro.

Ecco il piano d’azione: partendo proprio da Monster, passerò in rassegna tutti i motori di ricerca dedicati al lavoro; mi presenterò in tutte le agenzie interinali della mia provincia, al centro per l’impiego e all’Informagiovani. Senza remore e senza imbarazzo, presenterò la mia domanda di partecipazione a corsi professionali della Provincia di Pisa e dei vari enti locali e, spavalda e sicura di me, consegnerò il mio curriculum vitae alle aziende che non potranno più fare a meno delle mie competenze. E, questa volta con attenzione e consapevolezza del rischio, cercherò di capire come e a che condizioni sia possibile provare a realizzare un attività in proprio.

Chi di voi vuole venire come me? Mi raccomando, non perdetevi la prima puntata: come chiedere la disoccupazione.

mercoledì 12 settembre 2012

Unipi: il Questionario!

Cara/o Collega,
grazie per averci dedicato un po’ del tuo tempo!

Come ben saprai per i precari non sono certo tempi felici e, sia nell’ottica delle ultime riforme del governo Monti sia a seguito della riorganizzazione dell’Ateneo, abbiamo pensato che conoscerci un po’ meglio potrebbe essere un modo per dare vita ad un vero e proprio Coordinamento.

L’iniziativa nasce dalla nostra partecipazione al gruppo di lavoro sul precariato che, in collaborazione con le RSU, si è costituito negli ultimi mesi con l’intento di analizzare il tema in tutti i suoi aspetti.

La difficoltà più grande sta proprio nella raccolta del maggior numero di informazioni sulle esperienze lavorative delle persone che compongono quest’ampia “categoria”; ecco perché chiediamo il tuo aiuto!

Di seguito troverai una scheda che potrai compilare lasciandoci i tuoi dati.
Avere un quadro più preciso della presenza dei precari nel nostro ateneo, e del lavoro che svolgono, è fondamentale per cominciare a difendere i nostri diritti.

Questa occasione vuole essere il passo iniziale verso la costruzione di un gruppo di lavoro.
Ci auguriamo che sarai presente e soprattutto partecipe anche alle prossime iniziative!

Grazie



Mom-cession. Maternità, lavoro e precariato.


Bund, spread, btp, default, Standard & Poor’s, Moody, debito sovrano, titoli di stato, Troika, spending review. Come se la situazione di incertezza e precarietà in cui stiamo galleggiando non fosse sufficiente a rendere insicuri i nostri posti di lavoro e, di conseguenza, anche le nostre vite, siamo circondati da pedanti e altisonanti termini economici, oscuri acronimi insolvibili e nomi poco rassicuranti di severe agenzie di rating ammonitrici che - sebbene siano diventati il pane quotidiano di tg e quotidiani - ci aiutano ben poco a fare chiarezza e contribuiscono a rendere il periodo contemporaneo ancor più nebuloso di quello che già non è.

E proprio ora che ero riuscita a capire perché non va bene se sale lo spread e a comprendere l’importanza che un giudizio espresso da Standard & Poor’s può avere sull’andamento dei mercati, il mio “vocabolario della crisi” si arricchisce di una nuova voce: mom-cession. Il nuovo termine, che tradotto in italiano significa “recessione delle mamme”, nasce da uno studio presentato al 107esimo congresso di sociologia del Colorado in cui i due sociologi, Brian Serafini e Michelle Maroto, hanno evidenziato come una mamma abbia il 31% di possibilità in meno, dopo la perdita di un posto di lavoro, di trovare una nuova occupazione e come, a parità di condizioni, il nuovo stipendio di un papà superi mediamente di settemila euro l’anno quello di una mamma.
Mamme che si concentrano troppo sulla famiglia? Mamme che, in fondo, tengono meno alla carriera e a rimettersi in gioco piuttosto che dedicarsi alla cura del focolare? Uno studio del Families and Work Institute indica il contrario: con o senza figli, l’impegno nel lavoro e l’ambizione rimangono gli stessi. A questo punto, la domanda, seppur ovvia, nasce spontanea: non sarà che la recessione delle mamme è il risultato di una non certo nuova discriminazione da parte dei datori di lavoro? Proprio qualche giorno fa un’amica mi ha raccontato che, dopo aver sostenuto un brillante colloquio di lavoro, si è sentita dire di no perché madre di una bimba di tre anni e, come ci si può immaginare, chi ha un figlio è vincolata a degli orari e a degli obblighi familiari che non le permettono di essere totalmente disponibile. Ma che fine a fatto il cosiddetto concetto di “working balance”, il bilanciamento della vita professionale con le esigenze di quella privata?

Su vitadidonna.it leggo che, almeno secondo la ricercatrice dell’Università di Akron, Adrien French, le mamme che sono tornate al lavoro a tempo pieno, dopo aver avuto un bambino, hanno una forma fisica migliore, sono meno a rischio di cadere in depressione e manifestano una maggiore energia. Secondo la French “il lavoro migliora la salute fisica e mentale delle donne perché migliora l’autostima e permette di raggiungere degli obiettivi, di mantenere un controllo sulla propria vita e di sentirsi autonome”. Ovviamente, in termini di salute psico-fisica, le mamme occupate sono quelle che stanno meglio. Mentre il rischio di perdere il lavoro o essere costantemente alla ricerca di una nuova occupazione “ha effetti negativi sulla salute soprattutto mentale, ma anche fisica”. Non metto in dubbio la migliore salute mentale di chi ha un lavoro e non deve pensare come arrivare alla fine del mese, ma sul piano fisico non saprei: mai dubitare dell’allenamento di una rampante precaria che saltella dalla mattina alla sera da un colloquio ad un altro con una barretta energetica e due succhi di frutta nella borsa! Se aggiungiamo poi che non esistono ammortizzatori sociali che proteggono le mamme precarie rispetto alla discontinuità che caratterizza il loro percorso professionale, sfido chiunque a raggiungere livelli di resistenza fisica, agilità e concentrazione mentale di chi, lavoratrice atipica e madre, deve destreggiarsi fra contratti di lavoro senza orario, rate di asili nido da pagare e uno stipendio intermittente.

Non voglio di certo svilire la rispettabilità e l’attendibilità di uno studio sulla salute della donna ma mi chiedo se non sarebbe molto più importante, anche per il miglioramento della condizione psico-fisica femminile, dedicarsi alla realizzazione e alla messa in pratica di leggi e buone pratiche che supportino e tutelino la maternità e il lavoro femminile, senza che scegliere di avere un figlio rappresenti un ulteriore handicap alla già alta difficoltà di trovare e mantenere un lavoro.

Nell’attesa che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, con delega alle Pari Opportunità, Elsa Fornero - che tanto tiene alla parità dei licenziamenti nel pubblico e nel privato - inizi a stabilire i presupposti per l’attuazione di misure concrete che garantiscano non solo equità, a vari livelli, nel mondo del lavoro, ma anche nella scelta di poter avere un figlio, vi propongo di dare un’occhiata al “Programma-obiettivo per l’incremento e laqualificazione della occupazione femminile, per la creazione, lo sviluppo e ilconsolidamento di imprese femminili, per la creazione di progetti integrati direte” per l’anno 2012.

Sara C.

Le mamme ed il precariato


domenica 12 agosto 2012

Come un paese rinuncia al proprio futuro. La “flessibilità immaginaria” italiana

Uno dei più celebri inganni della storia recente del nostro paese è rappresentato dall’introduzione della cosiddetta “flessibilità” nel mercato del lavoro. Presentata a più riprese come la panacea di tutti i mali, essa ha rivelato il suo vero volto ben prima dello scoppio della grande crisi che stiamo vivendo. Fin da subito è stato chiaro che quel “modello flessibile”, trapiantato su di un organismo non pronto per riceverlo, avrebbe finito per trasformarsi in qualcosa di ben diverso da quanto promesso dai suoi più ferventi sostenitori. Ma la metamorfosi quasi immediata del “sogno” della flessibilità nell’”incubo” della precarietà non è soltanto il risultato di un’ingenua fiducia riposta in un esperimento fallito. Infatti se è vero che, come una creatura evocata da maldestri stregoni, tale modello è sfuggito al controllo della politica e si è sviluppato autonomamente lungo un percorso opposto a quello per cui era stato introdotto, la malafede e l’indifferenza di molti attori economici hanno consentito e sostenuto tale deriva. La politica ha certamente colpe enormi; prima fra tutte quella di non aver preparato il terreno creando un sistema di tutele ad hoc per le nuove categorie di lavoratori che si andavano ad introdurre nella legislazione del lavoro. A distanza di un quindicennio dalla comparsa in Italia di forme di lavoro flessibili ancora non si è giunti a predisporre misure adeguate di sicurezza sociale a difesa di tali lavoratori, vittime di una delle più vergognose discriminazioni collettive nella storia della repubblica. Oltre a ciò gli interventi legislativi non hanno operato un’azione coerente con la logica alla base dell’introduzione della flessibilità. Infatti tale logica si basava sulla convinzione che le nuove forme contrattuali avrebbero dovuto favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e un accesso nel mondo lavorativo più rapido per i giovani, consentendo alle imprese una maggiore libertà e incisività durante il processo selettivo per il reclutamento del personale. Ma l’inerzia della politica nel fissare regole precise in questa direzione ha consentito che tali nuovi contratti finissero di fatto per regolare non solo il momento, più o meno lungo, di reclutamento, formazione e inserimento del lavoratore in azienda ma persino il rapporto stesso di lavoro a lungo termine. In questo modo si è resa possibile la “bestialità” per la quale è conveniente regolare rapporti di lavoro di lungo periodo attraverso una serie infinita di contratti a tempo determinato. Ecco dunque che scopriamo il grande complice della politica e corresponsabile: il mondo imprenditoriale. Con un uso scellerato dei contratti atipici e a tempo determinato buona parte dei datori di lavoro ha contribuito con la politica a distruggere il vecchio mondo del lavoro senza costruirne uno nuovo. Invece di modernizzare e rendere più efficiente il sistema lavorativo italiano, tali interventi hanno finito per scardinalo sostituendo ad esso un mercato del lavoro selvaggio e irrazionale. Tale occasione perduta non solo ha avuto conseguenze nefaste per operai e impiegati ma ha assestato un colpo durissimo alla qualità delle performance delle imprese stesse. Infatti molti pseudo imprenditori hanno vanificato l’aspetto formativo alla base alcune tipologie contrattuali sfruttando per esempio contratti di apprendistato e formazione per mascherare semplici rapporti di dipendenza. In più tale sistema mortificante ha privato il paese e le proprie imprese di un numero enorme di competenze ed eccellenze costrette a prendere la via dell’estero. Queste conseguenze dimostrano nuovamente la malafede di un sistema sorto per affrontare le sfide della globalizzazione e di quel mantra che ha risuonato per buona parte degli anni Novanta e Duemila: “fare concorrenza alla Cina”. Ma rinunciando alla qualità di una forza lavoro preparata e specializzata, motivata dall’essere parte integrante di un progetto industriale coerente e a lungo termine, quale resistenza avrebbe mai potuto opporre il nostro paese? Ecco che la vera faccia della “flessibilità immaginaria” italiana ha preso la propria vera forma. Sotto il ricatto di una delocalizzazione selvaggia, essa ha coperto un’operazione di smantellamento dei diritti dei nuovi lavoratori che non ha comportato peraltro alcuna compensazione dal punto di vista occupazionale e salariale. In questo modo quelle stesse imprese che avevano già delocalizzato nei paesi emergenti gran parte dei cicli produttivi a manodopera scarsamente specializzata hanno potuto ottenere in Italia un abbassamento dei costi senza che ciò si traducesse in maggior qualità della produzione e tantomeno dell’occupazione. Le nuove generazioni di lavoratori sono divenute così, in un batter di ciglia, “precarie”, senza che coloro i quali avrebbero dovuto battersi per invertire la rotta, forse perché troppo occupati a garantire gli interessi di statali e pensionati, serbatoi enormi di consenso politico e tessere sindacali, si interessassero minimamente alla piega drammatica che stava prendendo la vita di tante persone.

Ma il rovescio della medaglia ha fatto sì che la precarietà nel lavoro comportasse la precarizzazione dell’esistenza stessa di milioni di giovani. Quella stabilità che aveva consentito alle precedenti generazioni di costruire il proprio benessere e con esso la forza e la solidità del paese è venuta definitivamente meno. Ma la crisi che stiamo vivendo ha mostrato l’importanza vitale di quel sistema sociale ed economico. Pensioni, risparmi, case di proprietà, solidi rapporti familiari e sociali hanno rappresentato e rappresentano le uniche reali reti di sostegno per i cittadini italiani e per lo Stato stesso nel mezzo della tempesta devastante che ci ha investiti. Ma crediamo che le “generazioni precarie” saranno in grado di garantire alle prossime e al paese altrettanto solide basi capaci di far superare i momenti più difficili? Come potranno avere una pensione ragazzi che oggi sopravvivono grazie a quella dei genitori o peggio ancora, dei nonni? Chi potrà risparmiare e immettere così nuove risorse nel circuito del credito guadagnando meno di mille euro al mese? Come potranno le nuove generazioni creare nuove reti di sostegno familiare se avere un figlio è diventato un lusso che in troppi non possono permettersi? Quale contributo potranno conferire generazioni tanto impoverite alle necessità finanziarie del paese dalle quali dipendono i servizi essenziali?  Queste sono semplici domande che mettono in luce il rapporto tra la precarizzazione e il futuro del paese. Ecco perché non è più possibile andare avanti lungo questo insensato percorso. Certamente le difficoltà economiche oggi rendono ancor più difficile un’inversione di marcia in un momento in cui la disoccupazione gonfia le proprie fila e un mercato del lavoro da incubo crea di continuo nuove povertà facendo quasi dei precari una categoria “privilegiata” rispetto a un “sottoprecariato” che vive alla giornata. Ma proprio per questo è ancor più importante rilanciare il lavoro quale fattore fondante della vita di ogni persona. La flessibilità può rappresentare un’opportunità per l’ingresso nel mondo del lavoro e occasione per una efficiente selezione e formazione da parte delle imprese ma deve essere ricondotta alla funzione di “mezzo”. In troppi e per troppo tempo hanno sparato sentenze contro il posto fisso glorificando le magie della “flessibilità immaginaria” assurta a “fine” ultimo del lavoro. Personaggi politici, economisti e altri che non hanno mai cambiato lavoro nella propria vita hanno tentato per anni di convincere i giovani che in fondo non avere alcuna certezza sulla quale fondare la propria vita fosse una bella cosa. Con le tasche piene di stipendi sicuri quanto le loro pensioni, questi illusionisti, “condannati” per loro sfortuna a una vita “noiosa” fatta di sicurezza economica e sociale, hanno mascherato il fallimento della flessibilità, magari attribuendone parte della responsabilità alla pavidità di molti giovani troppo “bamboccioni”. La flessibilità/precarietà degli ultimi due decenni ha fallito miseramente e ha privato il paese di anticorpi preziosi contro le crisi. Il sacrificio di milioni di giovani non ha portato alcun risultato se non quello di costringere intere generazioni a mettere la propria esistenza in stand-by. Queste generazioni chiedono di poter finalmente vivere ciò che per chi li ha preceduti era semplice normalità; convivere o sposarsi, acquistare una casa o permettersi un affitto, mettere al mondo dei figli. Proprio nel mezzo della crisi è fondamentale ribadire che il lavoro fisso è una conquista e per ogni lavoratore deve esistere il diritto naturale a tendere ad esso. Ciò è importante perché oggi si imposti un nuovo modello di sviluppo fondato sulla centralità del lavoro che servirà una volta che la tempesta sarà passata e dovremo ricostruire sopra le macerie che si sarà lasciata alle spalle. Questo non significa tornare agli anni Settanta ma ammettere che tra le variabili dei cicli produttivi, quella della durata indeterminata dei contratti dei dipendenti non rappresenta un freno alla competitività ma semmai un incentivo a creare ricchezza e stimolare nuovi e più maturi consumi. Significa finirla col falso garantismo che impone di reintegrare chi è stato giustamente licenziato (magari perché sorpreso a rubare) e tutelare dal doveroso licenziamento assenteisti e truffatori ma garantire invece i diritti del lavoro per tutti, come ad esempio quello di ogni donna ad avere un figlio senza rischiare di perdere il posto, senza l’odiosa distinzione tra lavoratori di serie A e di serie C degli ultimi decenni. Significa intervenire su ciò che realmente rende l’Italia un’economia poco competitiva e poco appetita dagli investitori. Rendere la giustizia più rapida ed efficiente, eliminare il peso soffocante della burocrazia, della corruzione e delle organizzazioni mafiose, rilanciare le produzioni ad alta intensità di tecnologia attraverso un nuovo e poderoso impulso a ricerca e formazione sono cose più difficili che inventare nuove tipologie di contratti lavorativi ridicoli ma sarebbero di gran lunga più incisive e vincenti. In conclusione significa impegnarsi a restituire ciò di cui le ultime generazioni sono state private e che rappresenta il bene più prezioso per ogni paese: la fiducia nel futuro. Solo se restituirà ai propri giovani la speranza, cancellando dai loro cuori e dalle loro menti la paura immensa e innaturale alla quale li ha condannati negli ultimi decenni, il nostro paese potrà riprendere il proprio cammino verso un futuro migliore.      

Alessio Manfroni - laureato in Politiche e Relazioni Internazionali, precario e blogger    




 
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