Il comma 24 dell’articolo 4 della nuova riforma del mercato del lavoro,
la Riforma Fornero, introduce il congedo di paternità, un diritto di cui i
padri di altri Paesi europei civilizzati possono usufruire già da anni.
Sebbene il comma sopracitato si ponga l’importante e ambizioso
obbiettivo di “sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore
condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per
favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, le misure di sostegno
previste dalla legge risultano decisamente esigue e alquanto inefficaci,
soprattutto se pensiamo alla cronica mancanza di normative per la tutela della
maternità e al welfare familistico che caratterizzano il nostro Paese.
In pratica, la paternità obbligatoria prevista dalla Riforma Fornero
consiste in un giorno di astensione obbligatoria, entro cinque mesi dalla
nascita del figlio, e di ulteriori due giorni di astensione continuativi,
goduti in sostituzione alla madre, a cui viene riconosciuta un’indennità giornaliera
a carico dell’INPS pari al 100% della retribuzione. Inoltre, anche se la
Riforma Fornero ha l’indubbio merito di introdurre per la prima volta il
concetto di “paternità obbligatoria” nella legge italiana, resta inalterato il
congedo parentale, che ha differenza di quello di paternità non si prende al
momento della nascita, ma più avanti, e si condivide con la madre. Secondo
quanto previsto dal congedo parentale, come si può leggere sul sito dell’Inps, il
padre lavoratore dipendente, nei primi otto anni di vita del bambino, può
astenersi dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a
7 mesi, ma ricevendo un’indennità pari al 30% della retribuzione: questa
drastica riduzione del reddito ha come conseguenza che solo il 6,9% dei padri
chieda, leggi “si possa permettere”,
il congedo parentale.
Per non parlare di tutte quelle forme contrattuali, oggi tanto in auge sia nel pubblico che nel privato,
che non prevedono nessun tipo di tutela a sostegno della cura dei figli.
Se guardiamo al resto d’Europa, l’inefficacia delle legge appare ancora
più evidente: in Germania, per esempio, il padre può dividere con la madre fino
a 12 mesi al 67% della retribuzione. In Norvegia i papà possono usufruire, non
di un giorno, ma di ben 12 settimane di congedo retribuito al 100%, mentre il
Danimarca, Francia e Gran Bretagna di due settimane obbligatorie. E non
parliamo della Svezia dove in Parlamento si sta discutendo se i due mesi obbligatori
di congedo di paternità, retribuiti all’80% dello stipendio, siano sufficienti
e, pertanto, non sia il caso di portarli a tre.
Sento dire spesso che in Italia gli uomini non prendono il congedo di
paternità per un fattore culturale, per il motivo, decisamente da mentalità
anni Cinquanta, per cui la cura della famiglia, il care, sia un esclusiva della donna: in realtà, come fa notare
Alessandro Volta, neonatologo dell’ospedale di Montecchio Emilia e autore del
libro Mi è nato un papà. Anche i padri
aspettano un figlio, in un’intervista a La Repubblica, la situazione è
molto cambiata:
<< Lo osservo anche nel mio ospedale, dove sempre di più incontro papà extracomunitari e perlopiù maghrebini. Pur provenendo da società molto patriarcali, si stanno facendo contagiare dai padri italiani, forse anche perché qui non godono dell’aiuto della loro rete familiare femminile. (…) Quando chiedo agli uomini quando si siano sentiti padri per la prima volta, perlopiù indicano il primo momento in cui hanno preso tra le braccia loro figlio, non quando lo hanno visto o lo hanno sentito piangere>>.
Il problema non sono i papà: se esiste una componente culturale che disincentiva
la scelta, per un lavoratore, di prendere un congedo per la nascita o l’accudimento
di un figlio, le ragioni sono da ricercarsi nella mentalità maschilista che
organizza e gestisce i rapporti di potere e lavoro della nostra società. In un
paese in cui le madri fanno più fatica a trovare lavoro e in cui molte
neo-mamme sono costrette a lasciare l’impiego per dedicarsi alla cura della
famiglia, come è possibile che le aziende siano pronte ad affrontare la figura
del padre-lavoratore? Non sarà che il fattore culturale non sia un comodo alibi
per non affrontare l’applicazione di un diritto?
Citando ancora Volta, alla domanda “Quale consiglio darebbe alla
politica?”, il neonatologo risponde:
<<Serve un congedo di paternità obbligatorio, al 100% dello stipendio per cinque giorni. E poi il primo anno di vita del bambino dovrebbe essere interamente coperto: 6 mesi di congedo per la madre, 6 per il padre, con quest’ultimo che mantiene i 2/3 del reddito. Certo, servono soldi. Ma basterebbe, come al solito, che tutti pagassero le tasse. Con i padri migliori, anche la società diventa migliore.>>
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