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mercoledì 25 luglio 2012

Avete presente gli Umpa Lumpa?

La Nestlè ha sempre suscitato in me dei profondi contrasti interiori.

Da una parte, le numerose critiche alla politica commerciale della più grande azienda del settore alimentare - ultima la condanna, insieme alla Tetrapack, per l’inquinamento del latte Nidina con Itx - che hanno sempre sollecitato l' idealista che è in me facendomi aderire alle svariate campagne di boicottaggio. Dall’altra, il Nesquik, il gelato fior di latte senza glutine, gli Smarties, il Galak, per non parlare di tutte quelle golosità cioccolatose e iper-caloriche della Perugina, mettono a dura prova la mia etica di consumatore consapevole.

Ma anche a  un’inguaribile cioccolato-dipendente come me viene voglia di urlare di nuovo al boicottaggio quando sente la proposta che la multinazionale ha avanzato ai dipendenti della Perugina: ridurre il proprio orario di lavoro da 40 a 30 ore settimanali in cambio dell’assunzione di un figlio con contratto flessibile. L’azienda ha definito questa proposta un “patto generazionale per favorire l’occupazione giovanile". La Cgil, sindacato di maggioranza nella fabbrica di cioccolato, risponde che “La proposta di Nestlè di barattare i diritti del lavoratori dello stabilimento Perugina di San Sisto, acquistati negli anni, con una prospettiva di lavoro, comunque flessibile, per i figli, è assolutamente inaccettabile oltre che impraticabile (…) prima di tutto perché non risolverebbe né i problemi occupazionali, né quelli della fabbrica”. Come da copione, gli errori di anni di cattivo management vanno a cadere sulle spalle dei dipendenti: con il meccanismo proposto dall’azienda, gli attuali operai si vedrebbero ridurre il salario di una quota che potrebbe arrivare al 40%, mentre lo stipendio di un nuovo assunto part-time non gli permetterebbe mai di rendersi autonomo.

Avete presente gli Umpa Lumpa del film La fabbrica di cioccolato?


Umpa Lumpa o Precari?


Willy Wonka, padrone di una grandissima fabbrica di cioccolato, trovò gli Umpa Lumpa ad Oompalandia, una regione di Oompa, una piccola isola situata nell’Oceano Pacifico. Gli Umpa Lumpa vanno pazzi per il cacao ma, sfortunatamente, nella loro terra riescono a trovarne solo un seme, tre massimo, all’anno. Così Willy Wonka offre loro di lavorare nella sua fabbrica dove potranno gustare cacao in abbondanza e gli Umpa Lumpa, felici dell’offerta, diventeranno lavoratori fedeli e operosissimi! Che dire, ormai i lavoratori sono considerati alla stregua di esotici omuncoli immaginari: presi per la gola da un inconsistente e precaria assunzione per un figlio e riconoscenti al buon padrone che ti tiene ancora al lavoro e ti permette di portare a casa il pane... ma senza cioccolato, perché quello se va nella riduzione! 

Chissà quando incominceranno a chiedere di fare qualche balletto:



Sara C.




giovedì 19 luglio 2012

Ma quando ti decidi a fare un figliolo?

Ma quante volte vi siete sentiti porgere la fastidiosa e sempre inopportuna domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”.

L’ultima volta mi è capitata qualche giorno fa sull’autobus mentre tornavo dal lavoro: una gentile anziana signora, con cui non ho una confidenza tale da esporle i progetti per il mio precario futuro, seduta sul seggiolino dietro il mio, mossa non so da qualche spinta di malsana e sgradita curiosità, assale il timpano del mio orecchio con la fastidiosa domanda “Ma quando ti decidi a fare un figliolo?”
Ed ecco che sento tutti gli occhi dei passeggeri, fino ad allora mollemente abbandonati al traballante incedere dell’autobus, rivolti verso di me con sguardo interrogativo. Io balbetto qualcosa sulla crisi, sul mio lavoro, mi giustifico ben sapendo che non sono assolutamente tenuta a dare alcuna spiegazione e vado nel panico. E così la gentile anziana signora mi interrompe: “Voi giovani non siete mai contenti, vi manca sempre qualcosa e avete troppe pretese”. Fortuna, o sfortuna, che sono una persona educata, non mi piace essere offensiva e sono pacifista, eppure in quel momento avevo una voglia incontenibile di sbattere il libro che avevo in mano sul naso impiccione della gentile anziana signora, di accompagnare il gesto con uno sproloquio di aggettivi sprezzanti e di mandare tutti gli altri passeggeri a quel paese. E fortuna che ero avvolta dalle sorridenti e magiche pagine di Dona Flor e i suoi mariti e che ho preferito ignorare tutti e dedicarmi alle vicende esoteriche di Flor e Vadinho.

Ecco quello che avrei voluto dire all’anziana gentile signora: è vero, oggi noi giovani non siamo mai contenti perché non possiamo più esserlo di uno Stato che chiede sempre maggiori sacrifici e offre sempre meno. Ci manca sempre qualcosa perché ci manca il lavoro, i mezzi di sostentamento per appropriarsi della propria indipendenza e del proprio futuro  e, ormai, ci vengono letteralmente negati (non ci possiamo certo dimenticare dell’infelice frase dell’attuale Ministro del Lavoro Elsa Fornero “Il lavoro non è un diritto”) anche i diritti fondamentali della nostra Costituzione. E se volere un lavoro fisso e un contratto che tuteli la maternità, voler poter scegliere di trascorrere con i propri figli almeno i loro primi mesi di vita e scegliere per loro quella che si ritiene sia l’educazione più opportuna è chiedere troppo, allora, è vero, i giovani hanno tantissime pretese e, almeno per quanto mi riguarda, non sono intenzionata a soprassedere nemmeno una.

La sociologa Chiara Saraceno, in un’intervista rilasciata a l’Unità, analizzando il rapporto Istat 2011 sulla povertà in Italia afferma: “La famiglia, grande ammortizzatore sociale nel nostro Paese, non ce la fa più a reggere il peso, i redditi modesti diventano sempre più vulnerabili e a vederla in prospettiva la situazione non sta affatto migliorando”. E continua dicendo che con il lavoro che va sempre diminuendo, per i giovani, è sempre più difficile riuscire ad essere indipendenti e a lasciare la casa dei genitori, mentre, con i servizi che vanno sempre più riducendosi, le donne sono sempre più costrette a rimanere a casa per dedicarsi al lavoro di cura. Alla domanda: “Una situazione sociale che si fa insostenibile: come arginarla?”, Saraceno risponde di essere molto perplessa quando tutta la spesa sociale viene considerata improduttiva e crede che anche l’istruzione e i servizi, intesi come infrastrutture sociali, dovrebbero essere considerati nel capitolo investimenti.

Vorrei che i nostri genitori e i nostri nonni non dicessero che i giovani “non fanno più figli”, parlando con l’aria di chi ha avuto il coraggio di fare un passo importante e responsabile a chi, impavido e egoista, preferisce pensare solo al proprio benessere. Oggi i giovani, anche quelli che magari un figlio lo vorrebbero, sono stati costretti a scegliere, responsabilmente, di non aver figli perché, prima, devono riconquistare quei diritti e garantirsi quei servizi senza cui è impensabile pensare di costruirsi una vita e una famiglia.



Sara C.


domenica 8 luglio 2012

La sindrome dell'ambizione


Il verbo ambire ha come originario significato: girovagare in cerca di uffici e voti al fine di garantirsi un’ascesa sociale od economica significativa. Per molti secoli, l’ambizione, è stato un costume disdicevole e l’ambizioso – tutto proteso nel tentativo di modificare la propria posizione entro una scala gerarchica che si credeva determinata dagli universali – un individuo biasimevole.  Il riscatto dell’ambizione, da un punto di vista assiologico, avviene in Francia nel periodo postrivoluzionario: un giovane nobilotto di provincia, corso, assurge in pochi anni al rango di imperatore. E’ il 1804.

Tutto il XIX Secolo francese è caratterizzato dalle figure di giovani provinciali, ambiziosi ed affascinanti, ispirati dalle grandi imprese di Napoleone Bonaparte e desiderosi di emularne le gesta. Per la maggior parte, la loro vicenda, il loro romanzo di formazione, sarà sanzionato con la sconfitta più a causa di una società ingiusta, incapace di elevare il merito oltre il lignaggio, che per incapacità. Eppure, è proprio attorno al tentativo ambizioso di cambiare la propria originaria condizione, attraverso superiori qualità, che si organizza un racconto in grado di attrarre generazioni diverse di lettori e indurre un’immedesimazione proprio con l’ambizioso, sia esso Julien Sorel o Eugène de Rastignac.

Ai giorni di oggi una divertentissima rappresentazione di una gioventù dalle qualità intellettuali e morali invidiabili è offerta dalla sit-com The Big Bang Theory che mette in scena un quartetto di ricercatori universitari in California, non molto ricchi, bruttini, desiderosi di una vita sentimentale appagante. L’unico, tra i protagonisti, che sottomette il valore della socializzazione a quello del successo professionale è l’ambizioso Sheldon Cooper che sogna di raggiungere il premio Nobel e di svelare i misteri dell’universo con lo studio della fisica. Ma nessuno si potrebbe identificare con lui: misantropo, cinico, ossessivo a tal punto da aver fatto ipotizzare agli spettatori di essere affetto dalla sindrome di Asperger.

Sono passati centocinquant’anni e l’ambizione è di nuovo qualcosa da cui prendere le distanze: un’istanza patologica, alienante. Come insegna Mark Zuckerberg il successo non può più essere pianificato, non esiste una ricetta che vi conduca; è piuttosto un accidente, proprio come accadeva a quelle figure letterarie, nate prima dell’Ottocento, che riscattavano la propria condizione attraverso l'agnizione o il ritrovamento prodigioso di un tesoro.

Francesco C.


Big Bang Precario!


domenica 1 luglio 2012

Della serie: I soliti ignoti erano dei professionisti...


Ho scoperto che sul sito web dell’ANSA esiste una sezione, tra gli Speciali, denominata Storie dalla crisi. Attira la mia attenzione questo titolo: Senza lavoro e con sfratto, operario si improvvisa rapinatore. Colpi in sala slot per pagare bollette e trasloco, arrestato. Nel dettaglio si legge: "Senza lavoro e costretto a lasciare casa entro la fine del mese si improvvisa rapinatore seriale di slot. Quarantasette anni, della provincia di Udine, ex operaio del settore edile, senza lavoro da circa un anno, è stato sottoposto a fermo dalla Squadra Mobile di Udine su indicazione del Pm quale presunto autore di due rapine e di una terza tentata messe a segno il 14, 20 e 22 giugno in una sala slot a Udine”.

In un primo momento mi ci viene un po’ da ridere, perché la descrizione del rapinatore mi fa venire in mente i personaggi de I soliti ignoti di Monicelli: i protagonisti sono il fotografo Tiberio Braschi, con un figlio e la moglie in carcere per traffico di tabacchi, il siciliano Michele Ferribotte Nicosia, il vecchio ladro esperto Dante Cruciani - che insegna il mestiere ai giovani delinquenti - ditemi se non potrebbe pure essere scritturato l'operaio esperto nella rapina di slot!

L’articolo segue: “Accompagnato in questura ha ammesso le sue responsabilità spiegando il gesto per la disperazione. I tremila euro frutto della prima rapina li avrebbe usati per pagare le bollette e il trasloco dall’abitazione che divide con l’ex moglie e che deve lasciare entro fine mese, non riuscendo più a pagare l’affitto”.

Lungi da me scagionare l'operaio o trovare una motivazione razionale che giustifichi la sua reazione ma - ammetto - che certe vicende non mi scandalizzano affatto e che, potrà sembrare assurdo, mi inteneriscono quasi! Sull’onda della commozione e del sentimentalismo mi viene da pensare che ci hanno proprio messo alle corde e che, come il pugile di Monicelli, Giuseppe - Peppe er Pantera - Baiocchi, l’avventura del nostro rapinatore amatoriale si concluderà senza un happy end e senza nemmeno potersi rinfrancare con un piatto di pasta e ceci della Nicoletta!

Non so perché, ma questa vicenda mi fa venire questa celebre battuta tratta proprio da I soliti ignoti:

- Dimmi un po’ ragassolo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?
- Qui de Mario ce ne so cento.
- Oh sì va bene, ma questo l’è uno che ruba…
- Sempre cento so.

Sara C.




sabato 23 giugno 2012

Precariamente - Little Miss Public Competition



Qualche mese fa diversi quotidiani hanno pubblicato articoli che proclamavano sfacciatamente come, in molti concorsi per l’assunzione di personale, si presentino troppo spesso candidati impreparati e poco motivati. Allora giù con articoli e opinioni per ribadire quanto i giovani siano svogliati, sfigati e bamboccioni.

Ora, eviterò la sequela indecorosa delle risposte sincere che vorrei offrire ai redattori e mi limiterò a parlare di me stessa - e non è perché sia particolarmente egocentrica - ma perché circa il prepararsi per affrontare un concorso pubblico ho, ormai, la mia discreta dose di esperienza.

Fin da quando frequentavo l’università, sono sempre stata una di quelle studentesse che non avrebbero mai sostenuto un esame se prima non avevano passato in rassegna ogni centimetro quadro dei libri in programma. Poi, dato che non volevo assolutamente dare l’idea di essere una di quelle che imparano la lezione a pappagallo, per fare mia la materia di studio, trascorrevo giornate a indottrinare la pianta sul davanzale della finestra. Se poi la materia mi appassionava, mi lasciavo anche andare a qualche lettura consigliata o scovata nella bibliografia di qualche testo d'esame. Ho mantenuto le stesse buone intenzioni anche per prepararmi ai concorsi: cerco di digerire gli statuti e i regolamenti - che non puoi far altro che ripetere all’infinito - mi documento sulla professione che potrei essere chiamata a svolgere e sulle attività dell’ente che bandisce la selezione pubblica. 

Sono andata avanti così, sicura che lo studio e l’impegno avrebbero prima o poi dato i loro frutti, finché, dopo essermi scontrata con uno, due, infiniti concorsi in cui al massimo riuscivo a piazzarmi esima in graduatoria, non ho sconsolatamente realizzato che l’impegno o lo studio incidono sul risultato di un concorso, sì e no, per una percentuale decisamente insufficiente se la tua aspirazione è quella di raggiungere almeno lo scalino più basso del podio.

Ripenso ad uno dei concorsi che ho fatto, circa un anno fa: io, immobile e stordita,  con le dispense tra le mani, le matite da scolaretta e la cioccolata fondente per i cali di pressione, catturata in una fitta rete tessuta con sorrisini ammiccanti scambiati, evidentemente, tra vecchie conoscenze, rapporti di convenienza ed accordi diplomatici che vanificano tutti i miei sforzi e neutralizzano le mie aspettative.

Mi sento come Olive che si esibisce per conquistare il titolo di Little Miss Sunshine a Redondo Beach: sulle note di Superfreak di Rick James; mi aggiro, ingenua, impacciata e fuori luogo, tra gruppetti di candidati che, dall’aspetto deciso e debordanti autostima,  sembrano tutti più preparati e intraprendenti di me!

Nonostante non abbandoni il mio patologico approccio da studentessa diligente tendente al secchione, sono decisamente molto meno ingenua di quando frequentavo l’università e sono stanca, emotivamente e mentalmente, di farmi prendere in giro partecipando a concorsi in cui solo io non conosco il nome del vincitore. Ed è per questo che dico che non è il caso di allibire se i candidati si presentano ai concorsi impreparati e poco, o per niente, motivati:  di fronte all’impossibilità di contare sulle proprie capacità e sui propri sforzi, l’unica risorsa rimane quella di tentare la sorte e di provare un concorso come si compra un Gratta e vinci al tabacchino.

Ed io, come Olive, con l’animo pieno di dubbi e di insicurezze, ma forte della mia integrità e della consapevolezza di avere di fronte delle persone che credono in me, vado avanti e mi esibisco fino alla fine.




Sara C.

La sindrome di Lulù


Ed anche questo contratto a tempo determinato si avvia alla sua conclusione e, almeno per ora, non esiste nessuna possibilità di proroga o di rinnovo. Il contratto scadrà il 30 settembre e - sebbene qualcuno insista a dirmi che manca ancora un bel po’ di tempo - faccio fatica ad essere fiduciosa e passo in rassegna tutto quello che ho sulla scrivania per non lasciare niente di mio: la tazza portapenne, le casse, il barattolo con le conchiglie che funge da fermacarte, l’ombrello di scorta per i cambiamenti di tempo repentini e lo spazzolino da denti.
Provo un po’ di nausea mista a rabbia per tutto l’impegno che ho profuso fino ad ora e che se ne va via col vento fastidioso che soffia oggi; un po’ di ansia per le rate del mutuo e un senso di spossatezza al pensiero di dover rimettermi in cerca di qualcosa da fare. 


In questo turbinio di pensieri malsani, fa capolino però una piacevole, quanto incosciente, sensazione che, sul momento, mi sorprende. Una strana eccitazione che mi cammina lungo la schiena e mi fa provare un forte senso di liberazione; mi prende la frenesia di infilare la tazza e il barattolo con le conchiglie nella borsa e le casse sotto braccio e arrivederci e grazie! 
Ed ecco che, quando sto per spegnere il pc, l’impulso di pazzia - o di cruda lucidità? - si squaglia come un cremino al sole sul marrone anonimo della mia scrivania.

Ho deciso di chiamare questa sensazione la sindrome di Lulù.


Lulù, protagonista de La classe operaia va in paradiso, è un operaio milanese con l’ulcera, campione del cottimo, odiato dai compagni e amato dal padrone, che - a seguito di un incidente - perde prima un dito della mano e poi il lavoro, passando così da ultracottimista a ultracontestatore.
Alla pazzia che sembra, inizialmente, ammorbare il protagonista, sottoposto a certi meccanismi alienanti del sistema di produzione fordista, segue un estatico senso di liberazione proprio in virtù del licenziamento patito e l’epifania di come la società – fondata su di uno sterile consumismo di massa – non sia in grado di rendere nobilitante l’esperienza del lavoro.

E’ questa la vita? – si chiede Lulù ad uno dei tanti consigli di fabbrica.




Sara C.

 
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